#noinonsiamonapoletani

di Giorgio El Cabezon L’altra sera ho provato a spiegare il razzismo negli stadi d’Italia a mia madre. L’avevo trovata tutta allarmata da un servizio telegiornalistico accattivante (il solito fuoco sulla paglia del target di riferimento storicamente terrorizzato dall’elemento aristotelico …Leggi tutto

di Giorgio El Cabezon

L’altra sera ho provato a spiegare il razzismo negli stadi d’Italia a mia madre. L’avevo trovata tutta allarmata da un servizio telegiornalistico accattivante (il solito fuoco sulla paglia del target di riferimento storicamente terrorizzato dall’elemento aristotelico della folla).

“Ma anche tu hai cantato quelle cose lì domenica?”

Ho iniziato la mia spiegazione con qualche esempio di ciò che penso possa essere tacciato di razzismo da stadio:

1) “bububububbububu” (riprodotto con effetto “moltiplica voce”) = razzismo cafo-cacofonico

2) banane in campo = razzismo alimentare

3) “l’hanno visto con le rose nel metrò (Samuel Eto’o) = razzismo surreal-pirandelliano

4) l’inno Italiano durante l’ennesimo minuto di silenzio di domenica sera a Torino = razzismo vintage con sfumature dicaniesche

Ovviamente mi affretto a dire che, pur non ritenendolo una priorità (soprattutto mediatica) nell’Italia della Crisi del 2013, sono contento che il razzismo venga condannato, al pari della violenza, per strada, nelle scuole e, perché no, anche negli stadi (a proposito: che voi sappiate, il bullismo è stato finalmente debellato?!).

Mentre.

1)      C’avete il mare inquinato

2)      Vesuvio bruciali tutti

3)      Milanesi tutti appesi

4)      C’avete solo la nebbia

5)      Milano in fiamme

6)      Senti che puzza scappano anche i cani

7)      Milanisti Ebrei (ecco forse su questa qualcuno potrebbe aver da ridire)

8)      Noi non siamo Napoletani

9)      A Maradona devi dare pure il culo…

NON sono discriminazioni di alcuna forma, non sono neanche sfottò, sono folklore, sono humus sociale (qualsiasi cosa sia. E’ sempre una bella espressione), sono l’adolescenza Italiana di ogni scuola italiana, sono la scritta VIVALAFIGAH incisa da una manina birichina sulla porta del bagno, sono le mille contese millenarie che caratterizzano l’impossibile unità italiana, sono Guelfi-Ghibellini, Capuleti-Montecchi ma anche Bergamo-Brescia, Livorno-Pisa, le contrade di Siena, sono i Derby. E sono parte della nostra cultura popolare, ovvero POP, come dormire davanti al festival di San Remo dopo una scorpacciata di chiacchere, come le parmigiane in spiaggia a Ferragosto…

Perché che piaccia o no noi non siamo napoletani, i napoletani non sono milanesi (forse alcuni si proclamano milanisti), ma siamo entrambi abbastanza Italiani da ricordarci relative differenze social-territoriali nei reciproci stadi almeno due volte all’anno…

Sono “discriminazioni territoriali”, queste? Beh, è talmente assurdo – eppure sì, avete ragione. Ci discriminiamo l’un l’altro. Nel senso letterale: cerchiamo di creare un discrimine. Che, dizionario alla mano, vuol dire “una distinzione”. Ci vogliamo distinguere. Non è quello che 99 pubblicità su 100 ci invitano a fare? Distinguerci.

E quindi, a mia madre ho detto: vanno aperte le curve, magari reintrodotti megafoni e tamburi, va spenta qualche telecamera, e discriminata, a sua volta, la differenza tra razzismo e folklore: il primo divide con violenza, il secondo unisce quell’Italia fatta di rime più o meno evolute.

(forse non l’ho convinta, ma sembrava tangibilmente meno allarmata)

 

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