Nedved, Barbarossa e la Partita della violenza
ANSA/ALESSANDRO DI MARCO
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Nedved, Barbarossa e la Partita della violenza

Grazie a Nedvded e a Barbarossa la Partita del cuore diventa un'occasione per sbarazzarsi del buonismo ipocrita. Nel calcio. E nella vita

È evidente che Ramazzotti non ha mai giocato a pallone nel campetto di un qualsiasi oratorio.

Altrimenti avrebbe evitato lo sfogo pubblico che ha generato il solito codazzo di indignazione tout court da parte dei professionisti che fanno del politicamente corretto la propria ragione di vita (e di guadagno).

La vicenda è nota. Torino, Juventus Stadium, Partita del Cuore, uno di quei tanti noiosissimi appuntamenti in cui si gioca del noiosissimo calcio in nome di noiosissima beneficenza.

Ex campioni e volti noti (immagino cantanti, visti i nomi coinvolti), tanti bla bla e giocate mediocri.

A fare notizia sono però le minacce di morte che Eros Romazzotti dichiara di aver ricevuto da Luca Barbarossa.

La tensione era salita qualche attimo prima dopo che Pavel Nedved era entrato in maniera energica sul rapperino Moreno e la cosa era stata (legittimamente? Arbitrariamente?) considerata da tutti una ritorsione per un tunnel subito dall’ex juventino da parte del cantante (ognuno è libero di pensarla come vuole, ma dopo il “ciao” di seguito al tunnel, uno sgambetto mi sembra fin poca cosa).

A lato, un principio di rissa, lì per lì decisamente poco scenografico.

Poi, la querelle mediatica, alimentata dallo sfogo di Ramazzotti su Instagram.

A insegnarcelo sono state decine di puntate di Perry Mason e La signora in giallo. Un personaggio minacciava pubblicamente di morte qualcuno. Il quale, a distanza di poco, moriva, facendolo diventare il principale sospettato. Come sappiamo, il fumantino sospetto era sempre innocente. Tra le minacce di morte e gli omicidi, come è evidente, non c’è dunque alcuna correlazione.

Personalmente, ho minacciato di morte decine di uomini (non sempre per ragioni sportive) e a centinaia ho augurato irriferibili sciagure. Cionondimeno, la mia coscienza, come la mia fedina penale, è immacolata.
E non sono certo un’eccezione, ma piuttosto una regola.

La stragrande maggioranza degli esseri umani non uccide altri esseri umani ed è perfettamente in grado di contenere entro confini completamente innocui lo sfogo della propria ira, la cui funzione è semplicemente catartica.

Certo, ci sono i pazzi omicidi, ma la presenza di eccezioni non può far sì che ci si basi su queste per condizionare l’esistenza di chi rappresenta la regola.

Invece lo stadio è diventato il palcoscenico del buonismo imperante. Con la scusa di mettere al bando un manipolo di teppisti (che al bando non ci vanno comunque) finiscono sotto attacco cori e striscioni da parte dei normali tifosi, sotto attacco imprecazioni e reazioni da parte dei giocatori. Il buonsenso viene completamente ignorato e così si finisce a censurare ogni comportamento umano per l’incapacità di distinguere tra gli sprangatori pericolosi (quelli sì da isolare e rinchiudere) e i virili e normali tifosi che insultano l’avversario o i virili e normali giocatori che mandano gli avversari a quel paese.

Siamo figli del nostro tempo e del posto dove siamo cresciuti, e siamo diventati così incapaci di analizzare la violenza da vederla dappertutto, così ossessionati dal giustizialismo mediatico da trovare ogni gesto sopra le righe scandaloso.

Per fortuna, la vita vince. E il calcio, nonostante sia un business sempre più vittima di se stesso (i calciatori ormai sembrano smorfiose modelle tanto sono tirati a lucido, si tuffano a ogni contatto anche anni luce lontano dall’area di rigore, parlano ai microfoni dei giornalisti con una soporifera diplomazia richiesta solo agli ambasciatori delle Nazioni Unite) resta qualcosa di vitale. E in campo, nonostante le telecamere pronte a intercettare ogni labiale, perché si possa successivamente commentare nei salotti televisivi e sanzionare da parte dei tribunali sportivi, vince la vita.

Grazie a Nedved e a Barbarossa abbiamo l’opportunità di riflettere su un’ipotesi che ormai fatica a trovare posto nel dibattito contemporaneo: che uno sgambetto sia solo uno sgambetto (rimpiangeremo il giorno in cui non si commetteranno più falli, ma si discuterà davanti a un arbitro/analista di quali sentimenti si stanno provando durante un contrasto) e che una sfuriata sia un sacrosanto diritto anche per chi di mestiere non scioglie nell’acido cadaveri nella sua vasca da bagno.

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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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