Il mio Festival, la mia coperta di Linus
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Il mio Festival, la mia coperta di Linus

Il nostro inviato alla vigilia del suo primo Sanremo

Sanremo, per me, come per milioni di italiani, è sinonimo di casa. Significa tornare bambino, sul divano coi miei genitori, a guardare il Festival. Per la mia generazione, o meglio, per la snobistica tipologia sociologica di persone di cui faccio orribilmente parte, il Festival non sarebbe un appuntamento importante.

Nonostante mi siano insopportabili tutti quelli che pronunciano la pretenziosa frase “io non guardo la televisione”, io non guardo la televisione. Nelle decine di traslochi fatti, tra stanze, appartamenti e materassi sistemati in angusti corridoi in cui ho abitato, in varie città, in un girovagare che aveva più a che fare con la disperata ricerca di un posto nel mondo piuttosto che con una filosofia di vita on the road, sono più di dieci anni che non possiedo un televisore.

Guardo, rigorosamente in streaming e in lingua originale, come molti miei coetanei, le serie tv americane o inglesi, con rare eccezioni. Per il resto, a parte qualche ospitata in talk show e programmi che mi è capitata (perché se anche guardare la televisione può essere un modo stupido di passare il tempo, farla non lo è mai) non ho che un’idea vaga del palinsesto televisivo.

Questa astinenza, più casuale che altro, mi porta, a volte, a casa di amici, a incantarmi davanti alla pubblicità o ai programmi più trash, sopraffatto da quello spettacolo orripilante, ma anche bellissimo, però.

Il Festival di Sanremo.

Il Festival di Sanremo è come la coperta di Linus.

È l’Evento.

Come i mondiali, da guardare rigorosamente col nonno, o i film di Bud Spencer e Terence Hill, qualcosa che ci ricongiunge col nostro brodo primordiale, un liquido amniotico che abbiamo assorbito, che ci parla di noi, dei nostri valori, del nostro passato, di un’identità nazionale che ci piace sbeffeggiare ma che ci riguarda, eccome se ci riguarda.

Per me, Sanremo è soprattutto un’immagine, fortissima, indelebile, assieme storia della televisione e della mia infanzia. Era il 1995. Un (finto) aspirante suicida interrompe il Festival. Pippo Baudo salva la situazione, lo prende fra le sue braccia, lo porta con sé.

Per me, non me ne voglia Fazio, Sanremo è Pippo Baudo.

Pippo Baudo, che non conosco, ma è Pippo Baudo. Una delle persone di cui mi fiderei di più al mondo, perché è lì, come era lì Mike, o Corrado, come sono lì Gerry Scotti e Maurizio Costanzo. Saranno brave persone? Saranno simpatici? Antipatici? Ma chi se ne importa. Sono volti più familiari di quelli di certi parenti. Sono la rassicurante facciata pubblica che tiene insieme le nostre coscienze private.

Ricordo un inverno di qualche anno fa, mi ero rifugiato in Sardegna, da alcuni parenti. E quell’anno, dopo tanti, seguii il primo Sanremo di Bonolis, che fu stupendo.

Per il resto, ne ho persi tanti, per un motivo o per l’altro. E non mi è mai capitato prima, né dopo, di vederne uno intero. Però, ogni volta che mi ci sono trovato davanti, per volontà o per caso, mi sono incollato davanti allo schermo.

Quest’anno avrò il privilegio di seguire il Festival. Quindi, dal 18 al 22 febbraio, vagherò per le strade della splendida cittadina ligure nella commovente luce invernale, gironzolerò per la kasbah, importunerò artisti e personaggi mondani, tenterò disperatamente e inutilmente di non prendermi una sbronza colossale e sperperare tutti i miei soldi al Casinò. Ma, soprattutto, lo vedrò tutto.

Sarò lì, a sentire i “big” cantare e gli ospiti susseguirsi l’un l’altro, parte dei milioni di italiani che vedranno con me, dal vivo o da casa, le stesse cose. E potrò abbandonarmi all’inganno di quell’eleganza, vaga e inessenziale, che un tempo si celebrava come fosse un’interminabile cerimonia dentro un’incrollabile fortezza di benessere e che oggi sembra l’uscita alla spicciolata da una festa danzante in cui i camerieri stanno iniziando a sgomberare, le luci sono accese e gli open bar chiusi, e non resta che tentare di raccattare una bottiglia aperta e provare a tirar mattino per vedere l’alba.

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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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