Tunisia
Federica Miglio
News

Viaggio in Tunisia tra i migranti morti senza nome

Reportage dal confine libico dove i cadaveri vengono raccolti e portati nel Cimetière des Inconnus

I cadaveri portati dal mare e dal vento qui a Zarzis, confine libico della Tunisia, non sono davvero tali. Nel Mediterraneo vagano spesso mutilati: di loro galleggiano le teste o gli arti; a volte è il tronco ad essere spiaggiato. Ma se anche fossero tutt’interi, riconoscibili non lo sono mai, perché privati di un diritto gemello a quello della vita, e cioè quello dell’identità.

1. È qui che entra in scena Chams. Diminutivo di Chamseddine (in arabo, chams è colui che porta il sole). A Zarzis è quello che porta il sudario, immagine religiosamente ecumenica, e raccoglie i morti per conto della Croissant Rouge (la Mezzaluna rossa, noi che abbiamo sempre bisogno di sapere per conto di chi) ma forse unicamente per conto di se stesso. Sicuramente al posto nostro.
Chams non ha un’auto per trasportare i cadaveri e la deve chiedere ogni volta a qualcuno. Con questo mezzo in prestito raggiunge un campo abbandonato alla periferia della città dove scava l’ennesima fossa. È arrivato al secondo strato con la donna e le due bambine di ieri, e ormai non c’è più spazio. Questo luogo è il Cimetière des Inconnus.

2. Improvvisamente mi ricordo di Oklahoma City. Una statua equestre vicino al porto di Zarzis me l’ha fatta tornare alla mente; c’è una statua equestre anche a Oklahoma City, chiamata The End of the Trail. È un gesso di oltre 5 metri che ogni americano conosce. L’ha fatto nel 1915 James Earl Fraser, e riproduce un indiano americano sconfitto e morente sul suo cavallo. È una statua che parla a ogni americano, che abbia voglia di ascoltare o meno. In una rotonda di Zarzis c’è un gigantesco cavallo di ferro. Corre possente, con la sua ruggine, ma non ha direzione. Mi ricorda qualcosa di mesopotamico e di racconto borgesiano. Infatti quando chiedo a Chams chi l’ha fatto, mi risponde che è stato un artista iracheno. S’intuiva, penso. Un esule iracheno che vive in Tunisia ha fatto un cavallo che parla a ogni europeo, che abbia voglia di ascoltare o meno.

3. Nel pomeriggio Federica ed io accompagniamo Chams a Radio Mouja, dove viene intervistato. Gli studi della radio sono in una palazzina moderna che affaccia sulla rotonda e sul cavallo, ma quando guardo fuori dalla grande finestra mi accorgo che, ai locali della giovane radio, il cavallo mostra il suo enorme culo. Ironia involontaria dell’architettura spontanea che disegna tutta la città, con pudicizia non faccio commenti perché in redazione ci sono solo giovani donne. Le donne tunisine, la sola speranza del Paese, spesso la prima scelta, di aziende e di amministrazioni, per i ruoli di vera responsabilità.

4. Chams alla radio ha raccontato del suo recente viaggio a Strasburgo, ospite del Parlamento Europeo. Non c’è traccia di vanteria nel racconto del viaggio salottiero, anzi c’è il rammarico di aver raccolto un’unica elargizione per il Cimitero: un privato donerà una Renault Espace allestita a carro funebre. Adesso l’auto è in Francia, a giugno dovrebbe arrivare al porto di Tunisi. La sfida sarà sdoganarla: se avrà fortuna e troverà una donna alla dogana ci metterà poco, ma il mix di burocrazia e ottusità maschile di questa latitudine potrebbe bloccare il carro funebre sul molo per mesi. Insciallah risponde il laico Chams, perché nel mondo arabo il futuro come progetto non esiste. Ci vediamo tra dieci minuti per un caffè? Insciallah.

5. I migranti partono lasciando a casa i loro documenti. Il passaporto, chi ce l’ha, la carta d’identità, chi ha solo quella. È la regola numero uno: se sbarchi clandestino in Europa non dire chi sei, non dire come ti chiami né da dove vieni. Se scoprono il tuo vero nome e scoprono da dove arrivi, ti pinzano un biglietto d’aereo all’orecchio e ti spediscono a casa. Se proprio un nome devi darlo, dallo finto. Questo giochetto ha un senso quando riesci a restare vivo, ma quando crepi nasce il problema. Sia che tu venga ritrovato intero o a pezzi, la domanda “chi eri?” resterà sempre senza risposta. Ma non è colpa tua, se l’Europa non cambia la sua ottusa legge sul porto di primo approdo o sui rimpatri, decisi con accordi segreti tra stati, tu sempre partirai (e morirai) così.

6. Rose-Marie è un’eccezione. Il suo ragazzo Amadin e l’amico Benard, salvati dalla Guardia Costiera tunisina, sono i suoi testimoni. Nigeriana, morta di stenti sul barcone che dalla Libia era diretto in Italia, i suoi amici hanno trovato solo il cimitero di Chamseddine per darle una degna sepoltura. Rose-Marie è l’unica salma in tutto il cimitero ad avere un nome.

7. Federica fotografa i pesci morti sulla sabbia. Perché i pescatori di Zarzis, che sembrano contadini di mare, li lascino qui non lo sappiamo. E non fa nessuna differenza per la sabbia che indifferente smeriglia pesci e granchi morti, migranti e funi mangiate dalla salsedine. Il Mediterraneo è violenza. Abituati alle sue piscine tra Sardegna e Corsica, buen retiro da intellettuali in camicia di lino, a Zarzis svela un’altra faccia. C’è una brutalità primordiale nel vento e le sue acque ora turchesi ora malva sono una minaccia più che un invito. Un rondò tra vita e morte, sessualità e mito.

8. Non siamo i soli, e non siamo certo i primi, occidentali arrivati a Zarzis. Qui passano tutti i mestieri e tutti i professionisti della sciagura chiamata, da chi la subisce come da chi la teme, immigrazione clandestina. Ci sono ONG e attivisti, accademici e volontari. Come in ogni settore della società umana (e i migranti, loro per primi, non fanno eccezione) esistono classi sociali e gerarchie. Esiste, come direbbe il mio Proust che qui non riesco mai ad aprire, un Faubourg Saint-Germain della solidarietà.

9. La certezza, in poche parole, che tante ONG non esistono a causa del problema, ma grazie ad esso. Con Federica ci prendiamo il tempo (lo scrupolo?) di leggere un dossier sul tema, pubblicato da una sigla della quale non importa citare il nome. E’ scritto per essere letto in superficie. Per giustificare uffici e personale. Quando il giorno dopo chiediamo di entrare nel merito di una statistica, di un concetto, ci accorgiamo che non sanno nulla di più di quello che hanno scritto e stampato. Anche l’operatore umanitario - a volte, il più delle volte - è un nine-to-five job.

10. Ti chiedi tu cosa ci sei venuto a fare se tutti parlano e tutti ormai, dice Federica, fotografano e postano senza contare fino a tre. Torna in mente l’imbattibile “non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me”. Era Groucho Marx. E’ un club affollato da gente che prima ancora di avere un’opinione certa, pensa di avere una missione necessaria. Invidio, fino a dove m’è possibile, un gruppo di alternativi arrivati in camper dalla Francia: sono attivisti di un collettivo radiofonico. Dopo il tema migranti a Zarzis, saliranno a Sfax per incontrare un gruppo tunisino di LGTB/QI. Anche QI? Chiedo divertito, nella mia ignoranza. Sì, mi rispondono: Queer e Intersexual.

11. A Sfax? Però! In una società dove la perdita di un figlio maschio durante l’attraversata dalla Tunisia all’Italia è più importante della morte di tre figlie femmine, quelli del gruppo LGTB/QI di Sfax mi sembrano dei rivoluzionari e chi li va a intervistare via web, collettivo libero senza editori e senza padroni, è fantastico, nonostante lo stucchevole vocabolario da centro sociale. Alla fine dei conti il loro velleitarismo da banlieue 3.0 ha più senso del finto plaidoyer della ONG scritto copia-incolla da impiegatucci della cooperazione.

12. A Zarzis è arrivata anche la Carovana Migranti. E’ il mito di Sisifo attualizzato. Splendidi attivisti autofinanziati che mettono in contatto i famigliari di chi è scomparso in Argentina, in Messico e nel Maghreb. Gianfranco viene da Torino (come di Torino è la Film Commission che ci permette di lavorare qui a un progetto di film documentario) e rappresenta questo movimento senza gerarchie; ha una forza di volontà che gli invidio: perché si basa su una sorta di scetticismo non arrendevole, che per me è una formula ammirabile di umanità e altruismo. Poi c’è Monica, che ha imparato l’arabo da autodidatta ma forse dissimula per troppa onestà, perché lo domina da interprete esperta. Si è pagata da sola, come tutta la Carovana, il viaggio dall’Italia per venire in questo finis terræ, e ci racconta, tra le altre, la tragicommedia di un migrante tunisino. Col sorriso, ci porta dentro la tragedia.

13. E’ la storia a lieto fine (ma dipende dai punti di vista) di un tunisino che ha deciso di emigrare in Europa passando, misteriosamente, dalla Libia. Ai trafficanti libici vederselo arrivare dritto in bocca dalla Tunisia non è sembrato vero. Lo hanno sequestrato, se il verbo è corretto, visto che non l’hanno rapito ma si è consegnato lui. Gli hanno fatto chiedere il riscatto a casa. A riscatto pagato, dopo mesi, lo hanno finalmente liberato. Nel giro di poche ore un’altra banda l’ha sequestrato nuovamente, ma a quel punto ha dovuto raccontare la sua storia, spiegando che i soldi dei suoi famigliari (i quali si erano venduti casa per farlo liberare) erano finiti. La nuova banda alla fine gli ha creduto e per non perdere l’affare l’ha venduto come schiavo a un coltivatore del sud libico, che se l’è portato nella sua tenuta per il raccolto. Finito il raccolto lo schiavo era però solo una bocca in più da sfamare, e così è stato liberato. Trovandosi al sud si è diretto verso la costa libica da dove alla fine è riuscito, senza documenti, nell’impresa surreale di immigrare clandestinamente nel suo Paese natale.

14. Ma la Libia non dovrebbe mai far ridere. La Libia, lo sa la politica europea complice e criminale, è la Geenna dei migranti. Qui si viene violentati, sfruttati, umiliati e uccisi. O si parte alla bell’e meglio verso l’Italia. Siriani e subsahariani. Donne e bambini. Mentre dalla Tunisia, partono solo maschi. Vista da qui, la percezione della cesura geografica è netta. La Libia come problema o la Libia come bastione. Dipende da come la si vuole intendere.

15. Prima dei flussi e prima degli attentati a Zarzis il turismo era (con la pesca) la principale industria. I resort sono aperti, ma semi vuoti. E’ il terrorismo che fa concorrenza ai tour operator. Oggi fa arrivare qui i russi che evitano Sharm dopo l’attentato aereo del 2015 e sostituiscono i turisti dall’Inghilterra, da dove non arrivano più i voli per decreto ministeriale. Sempre nel 2015, i due attacchi terroristici del Bardo e di Sousse sono stati l’11 settembre tunisino. Un colpo quasi mortale al suo turismo, perché ha colpito le classi medio basse che andavano apposta in vacanza nei villaggi, o in crociera, dove si sentivano più protetti dal mondo esterno. Ma la politica tunisina d’ispirazione laica non ha reagito con compattezza nei confronti dei movimenti che si richiamano all’Islam. Ricordo uno dei più importanti uomini d’affari tunisini, seduto nel suo ufficio a La Marsa, confidarci la preoccupazione di un suo caro amico, ministro marocchino, che ogni giorno per prima cosa s’informa della situazione a Tunisi perché, ormai è diventato uno slogan per iniziati, se cade la Tunisia cade tutto il Maghreb.

16. Ma Zarzis è molto più vicina a Tripoli che a Tunisi. E davanti al mare c’è il Cafè Marina. E’ il nostro luogo d’elezione dal primo giorno, ben prima di scoprire che il proprietario dà lavoro ai migranti subsahariani rimasti a metà strada. C’è chi lavora in cucina e viene dalla Nigeria (fugge, dalla Nigeria di Boko Haram) e c’è chi viene dalla Costa d’Avorio e si commuove per il semplice fatto che noi, due clienti occidentali, le rivolgiamo la parola non per chiedere un’ordinazione ma per sapere come va. Uno parla inglese e l’altra francese, ma l’antica lingua coloniale è storpiata con accento così forte, che si colgono solo poche parole e il senso generale. I racconti – la gente buttata in mare, le galere libiche, le cicatrici – si assomigliano tutti.

17. Non si può leggere Proust a Zarzis perché c’è sempre il vento, e le sottili pagine della Pléiade impazziscono. E al Marina non si possono ordinare alcolici. Due problemi seri, mentre il tempo mette al bello e i pescatori escono in mare; è un mare diventato piccolo, venduto dai politici corrotti ai libici e ai maltesi, e percorso con l’attonita speranza di trovarci pesci e non cadaveri. Ma la stagione del vento del Sud inizia adesso, e le correnti ne porteranno certamente di nuovi, magari proprio qui davanti; allora qualcuno chiamerà Chams per dirgli di venirseli a prendere.

Siamo in un palcoscenico dove ognuno – il migrante e il salvamondo, il militare e il contrabbandiere, il pescatore e l’attivista, l’industriale e il becchino – interpreta la sua parte. Ma per questo spettacolo, a Zarzis, non si paga il biglietto e non c’è trama coerente. Hanno già pagato, per tutti, i morti senza nome di Chams. E coloro che li aspetteranno invano.

AT

I più letti

avatar-icon

Alessandro Turci

Alessandro Turci (Sanremo 1970) è documentarista freelance e senior analyst presso Aspenia dove si occupa di politica estera

Read More