I veleni (veri) dietro la (presunta) trattativa tra Stato e mafia
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I veleni (veri) dietro la (presunta) trattativa tra Stato e mafia

Perché Napolitano alla fine ha rifiutato di deporre al processo? Intanto, il collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè nega di fatto la liaison tra Cosa nostra e istituzioni

di Massimo Bordin

1. Sì, no, forse: il travaglio del Quirinale prima del rifiuto a testimoniare

Prima un freddo «forse», datato 18 ottobre 2013: «Il capo dello Stato resta in attesa di conoscere il testo integrale dell’ordinanza di ammissione della testimonianza, per valutarla nel massimo rispetto istituzionale». Poi le due lettere inviate ad Alfredo Montalto, presidente della Corte d’assise di Palermo che giudica la presunta trattativa Stato-mafia. La prima missiva è del 31 ottobre 2013, la seconda del 25 novembre. Attenzione ai contenuti, però. Nella lettera di fine ottobre Giorgio Napolitano è «lieto di dare un utile contributo all’accertamento della verità»; quindi (di fatto) dice sì alla convocazione della corte.

Viceversa, in quella di novembre il presidente della Repubblica scrive: «Non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo». Ecco: che cosa è successo fra una esternazione e l’altra? Ambienti del Colle lasciano filtrare qualche risposta. Il forse fu semplicemente una presa di tempo in attesa di decidere il da farsi. Il sì, all’epoca valutato dagli analisti come clamoroso, è stato inveceunmoto dettatodaldesiderio di fare chiarezza. Napolitano, che ha vissuto con travaglio personale tutta la vicenda, avrebbe voluto dire ai magistrati: «Non ho nulla da nascondere e ve lo confermo a faccia a faccia».
Come si spiega il no successivo, allora? Con l’ufficio giuridico del Quirinale, che ha sconsigliato la testimonianza: avrebbe creato un precedente pericoloso. Da qui a sempre Napolitano avrebbe sottoposto la figura del presidente della Repubblica a quella dell’autorità giudiziaria. Pur volendo essere infatti fiduciosi con i pm del processo Stato-mafia, chi assicura che in futuro un qualsiasi pubblico ministero non convochi un presidente solo per metterlo alla berlina?

Anche nel caso di specie, certo non sarebbe stato gratificante far sedere nella stessa aula (metaforicamente, s’intende, la testimonianza sarebbe stata prodotta al Quirinale) il capo dello Stato italiano e il «capo dei capi» della mafia, Totò Riina.

2. Altro che mistero: per «Nino il pentito» Provenzano cercava solo tranquillità

Le ultime due udienze del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia hanno mostrato un’interessante linea di tendenza. Con l’inizio della sfilata dei testimoni, l’oggetto del processo ha cominciato a mostrare un’immagine meno nitida.

Il fenomeno può sfuggire perché l’informazione punta su vicende esterne al processo come le minacce di Totò Riina ai pm, o come la lettera del Quirinale. Ma in realtà un processo è anzitutto quello che succede in aula. Le ultime due udienze, complessivamente circa nove ore di interrogatorio, hanno avuto come protagonista un pentito, Antonino «Nino» Giuffrè, ex capo mafia di Caccamo, nel Palermitano. In quella veste si occupò di garantire a lungo la latitanza di Bernardo Provenzano e fino al 1992, quando passò un anno in carcere, fu presente alle riunioni della commissione provinciale palermitana, l’élite di Cosa nostra. A proposito di una delle riunioni, Giuffrè ha confermato quanto detto da altri pentiti, e cioè che alla fine del 1991 Riina comunicò che, da notizie certe, già sapeva che in Cassazione il maxiprocesso sarebbe finito malissimo.

Dunque bisognava vendicarsi, colpire i politici che avevano promesso di interessarsi e non avevano concluso nulla e i principali responsabili del processo stesso, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che per di più continuavano attivamente a indagare. Attenzione alle date. Alla fine del 1991, quando l’agenda rossa era intonsa e forse ancora sugli scaffali di una cartoleria, i mafiosi avevano già deciso di uccidere Borsellino. Quanto ai politici, l’elenco di Riina, notoriamente un sanguinario, è lungo e comprende, secondo Giuffrè, imputati  come Calogero Mannino e testimoni d’accusa come Claudio Martelli. Ma tutto è finalizzato alla vendetta.

Il papello con le richieste di Riina? «Non ne so nulla. Mai sentito» assicura Giuffrè, che poi racconta i suoi colloqui con Provenzano latitante nel 1993. Compiuta la vendetta, si è deciso di passare all’intimidazione per rispondere all’arresto di Riina avvenuto a gennaio. Leoluca Bagarella, cognato di Riina, progetta stragi di innocenti. Provenzano all’inizio approva, poi capisce che si stanno cacciando in un vicolo cieco. Il boss si spiega in poche parole: «Con lo Stato non si può». Altro che trattativa. Almeno così racconta Giuffrè, che poi descrive la fase successiva.

Provenzano vuole fermare Bagarella e compagni che vanno seminando il terrore causando solo guai alla sua latitanza. Siccome quelli sono militarmente forti, di sparargli non si parla. Non resta che farli arrestare, come del resto aveva già fatto con Riina. Dal 1994, nel giro di 4 anni, i Graviano, Bagarella, i Brusca finiscono in galera. C’è dietro Provenzano? È probabile, dice Giuffrè, che sostiene come il vecchio boss volesse un po’ di tranquillità per riallacciare nuovi rapporti politici. C’è riuscito? Giuffrè non si pronuncia chiaramente, anche se cita Marcello Dell’Utri. E così, distrutta nelle sue basi l’ipotesi del rapporto fra stragi e trattativa vantaggiosa per la mafia, si scantona in un altro processo e in un’altra storia.

3. E per riscrivere la storia d’Italia in procura si affidano a Giraudo

La Procura di Palermo riprova a scrivere un pezzo della storia d’Italia. Non contenti dei clamorosi flop collezionati, alcuni pm lavorano su una nuova pista che rilegge fatti avvenuti fin dagli anni 60 in Sicilia e non solo. Di sicuro c’è che stanno indagando di nuovo sul generale Mario Mori, benché sia stato assolto dall’accusa di aver favorito la mafia, e sull’ex colonnello Giuseppe De Donno, entrambi imputati nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Un magistrato è stato ricevuto con tutti gli onori al comando generale dei Carabinieri, dove è arrivato insieme a un altro «esperto» di misteri, il colonnello Massimo Giraudo. Motivo della visita: acquisire i fascicoli personali dei due ex ufficiali. Giraudo ha dato molto da lavorare agli uffici giudiziari milanesi per una sua personalissima e complicata teoria sulla strage di piazza Fontana del 1969. Ma non convinse né la procura né il gip Fabrizio D’Arcangelo che, a fine settembre, ha archiviato l’indagine con parole nette: la tesi era «priva di fondamento». Ora Giraudo torna in pista a Palermo dove, in fatto di ricostruzioni storiche strampalate, non sono secondi a nessuno.

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