Il dolore silenzioso che porta alla morte
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Il dolore silenzioso che porta alla morte

La profiler Cristina Brasi, psicologa e criminologa, analizza contesto e ragioni in cui è maturata la tragedia familiare di Tempera

Carlo Vicentini, è morto suicida dopo aver ucciso la moglie e i due figli nella sua casa a Tempera, in periferia dell’Aquila. Abbiamo chiesto alla nostra profiler, la dott.ssa Cristina Brasi, psicologa e criminologa, le conseguenze psicologiche sul lungo termine per chi si prende cura di un parente malato.

L’accudimento di un familiare malato è un fattore che, all’interno del nucleo familiare, apporta importanti modificazioni nelle dinamiche intrafamiliari. L’effetto è un impatto, spesso con esiti devastanti, sul ciclo vitale della famiglia stessa. Si consideri che la famiglia è un sistema in continuo divenire e, il modo in cui questa reagisce a circostanze difficili, è il risultato dell’interazione tra diversi fattori quali le dinamiche familiari, la capacità di effettuare una corretta valutazione del problema, le strategie che si hanno a disposizione per affrontarlo, le risorse materiali e i supporti esterni.

Il “caregiver”, ossia la persona che assiste prevalentemente il malato, è la figura di riferimento per chi si trova in una condizione di necessità di accudimento a seguito di totale o parziale non autosufficienza, a causa di patologie fisiche o mentali. La continua esposizione del “caregiver” alla situazione di malattia, e le relative implicazioni, sia di ordine pratico che di ordine psicologico, possono esporlo a quello che viene definito “burden caregiver”, ossia una forma di stress che tenderà a cronicizzarsi con il prolungamento della situazione di accudimento. Il “caregiver” potrebbe trovarsi nella condizione di sentire la responsabilità della cura e dell’assistenza vivendo al contempo l’impossibilità di delegare, sino ad arrivare al punto da percepire come una propria colpa anche eventuali criticità o peggioramenti nella condizione del proprio parente ammalato. Come conseguenza proverà dei sentimenti di impotenza e di rabbia, oltre che a un estremo senso di dovere che potrebbe portarlo talvolta a rinunciare alla cura di sé, alle proprie ambizioni e alle relazioni sociali.

Assistere una persona, come indicato in precedenza, sconvolge tutto il sistema familiare con ricadute su tutti membri del nucleo. Il problema maggiore risiederebbe nel momento in cui la natura della disabilità verrebbe resa invisibile, riducendo drasticamente la possibilità per la famiglia di essere compresa e supportata dall’ambiente sociale in cui vive. Il senso di vergogna che ne scaturirà farà sì che, i membri della stessa, riducano gli scambi sociali arrivando, in alcuni casi, a trovarsi in una situazione di isolamento.

Al momento della diagnosi, considerare la famiglia come un sistema in evoluzione, permetterà di evitare il rischio di giudicare come permanente una reazione poca adattiva o, al contrario, di considerare il superamento di tale impatto come un unico ostacolo a cui dover far fronte nel corso del tempo. Si ricordi che, il momento della diagnosi, è quello che mette le persone di fronte a un futuro non prevedibile. Da questo momento in poi, dallo shock iniziale, seguirebbero sensi di colpi e rabbia, sino ad arrivare ad una trattativa e all’accettazione del problema. Ciò però a livello teorico, ma, in realtà, senza un supporto adeguato, è davvero complesso che questo processamento possa avere luogo correttamente e, soprattutto, in maniera adattiva.

Si consideri inoltre che, la vulnerabilità allo stress psicologico, è influenzata da fattori quali il temperamento, il livello di coinvolgimento emotivo, le capacità di adattamento, il background socio-culturale e la disponibilità di risorse personali e sociali. In pratica un determinato evento viene considerato un disagio a seconda del modo in cui viene percepito dal soggetto come eccessivo, intollerabile o al di sopra della sua capacità di affrontarlo e superarlo. Nel momento in cui l’evento è improvviso, imprevedibile, con effetti persistenti e la persona che è chiamata a sostenerlo non abbia risorse sufficienti per affrontalo e superarlo, il rischio di tracollo sarà maggiore.

Le famiglie che possiedono efficaci strategie cognitive che consentono una rilettura degli eventi, individuando elementi positivi, avvalorandosi di chi possiede conoscenze scientifiche e in grado di esprimere il proprio vissuto emotivo, bloccando in sé e negli atri la tendenza a dar peso a sentimenti negativi, ammettendo la conflittualità, ma dando spazio ai bisogni degli altri membri del nucleo, saranno maggiormente in grado di fronteggiare la situazione anche sul lungo termine. All’atto pratico sono strategie di “coping”, ossia le modalità che le persone utilizzano per affrontare le avversità, che consistono nel regolare le proprie reazioni emotive negative conseguenti alle situazioni di stress e nella capacità di modificare o risolvere la situazione che sta minacciando la famiglia. L’effetto sarà quello del mantenimento dell’integrazione familiare con un’importante riduzione dello stress.

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Cristina Brasi