donna segregata
(iStock)
News

Nella testa di un uomo che segrega una donna

Cosa spinge un uomo a trasformare una donna in una prigioniera? Quale piacere provoca? Che problemi nasconde?

Aguzzini, sadici, freddi, spietati, malati. Entrare nella resta di un uomo che trasforma una donna in una propria personale prigioniera è molto complesso perché sono molteplici le sfaccettature della mente umana coinvolte.

Nei casi di segregazione, spesso correlati a torture, sono differenti gli elementi di natura gravemente disfunzionale in gioco. Il più semplice da identificare e comprendere, anche per l’abuso recente che viene fatto di questa categoria diagnostica, riguarderebbe il narcisismo maligno patologico. Il comportamento che verrebbe adottato sarebbe emotivamente distruttivo, manipolatorio e seduttivo e, il fine unico, consisterebbe nel prosciugare la vittima di ogni energia vitale, facendola cadere in una spirale di dipendenza affettiva e di impotenza. La caratteristica distintiva che entrerebbe in gioco sarebbe l’assenza di senso di colpa, sia nel momento in cui il soggetto agisce violenza che in quello in cui è atto a mentire. Questo verrebbe reso possibile dalla profonda convinzione che, la persona che gli è vicino, meriti il suo comportamento e la rabbia verrebbe giustificata come una sorta di vendetta per potersi prendere con l’inganno quanto crede spettargli. Il partner diventerebbe così un oggetto di proprietà di cui disporre totalmente sino ad arrivare, in casi estremi, alla segregazione. Il controllo verrebbe agito mediante la “dipendenza affettiva” della vittima, che si caratterizzerebbe per l’incapacità di fare a meno di chi procura il dolore emotivo. I narcisisti patologici creerebbero difatti un trauma in chi sta loro vicino attraverso atteggiamenti manipolatori, l’utilizzo di ricatti e, soprattutto, generando sensi di colpa.

Però, per arrivare a segregare e torturare, altri elementi sarebbe coinvolti, come ad esempio il Disturbo Antisociale di Personalità. Per definizione, i soggetti con Disturbo Antisociale di Personalità, presenterebbero assenza di senso di colpa, sarebbero generalmente più aggressivi, manifesterebbero Deficit di Attenzione e di Controllo degli Impulsi, oltre a problemi di natura temperamentale. È ipotizzabile che, in casi di questa gravità, l’insorgere del Disturbo Antisociale di Personalità sia correlato al Disturbo Reattivo dell’Attaccamento (Reactive Attachment Disorder RAD) o al Disturbo da Impegno Sociale Disinibito (Disinhibited Social Engagement Disorder DSED) che si manifestano in età infantile. Il Disturbo Reattivo dell'Attaccamento descriverebbe una condizione in cui il bambino non dispone di una figura di attaccamento. Il Disturbo da Impegno Sociale Disinibito delineerebbe invece uno schema di comportamento socialmente aberrante con adulti non familiari, e riguarderebbe bambini che hanno sperimentato una grave trascuratezza sociale. Si caratterizzerebbe per una ridotta o assente reticenza ad avvicinarsi o a interagire con adulti non familiari.

Nei bambini con sviluppo tipico, la paura dell'estraneo si presenta generalmente nell'ultima parte del primo anno di vita e continua a essere evidente a vari livelli nel secondo e terzo anno, con graduale calo negli anni prescolari. Nel DSED, non c'è alcuna paura per l'estraneo, ma anzi, c'è un'attiva ricerca di contatto e d'interazione con adulti sconosciuti. Ci sono evidenze circa il fatto che, alcuni bambini maltrattati, presentino contemporaneamente sia gravi problemi nell’attaccamento che da condotte interpersonali antisociali. L’aggressività diverrebbe così una risposta di difesa nei confronti della mancanza di sensibilità da parte della figura di accudimento, sino a diventare una parte integrante del Sé. Tali elementi sarebbero quelli che darebbero atto ai fenomeni di depersonalizzazione, ossia alla creazione di una sensazione di distacco da sé e dall’ambiente, comportando la creazione di una sorta di barriera nella normale comunicazione. Il soggetto considererebbe i propri sentimenti come unici. Tale vissuto verrebbe rielaborato come risposta negativa da parte degli altri a sé e, in conseguenza di ciò, il soggetto inizierebbe a viversi come escluso, ostracizzato andando ad autogiustificare ulteriormente l’utilizzo del partner come un oggetto di proprietà.

In ultimo, per quanto concerne l’aspetto delle torture, si consideri che gli obiettivi del sadico sarebbero l’annientamento, fisico e psichico, la deumanizzazione della vittima e la sofferenza. Il soggetto sadico godrebbe nel forzare la propria vittima alla sottomissione in quanto, tale atto, gli fornirebbe un senso di appagamento. Il sadico sarebbe caratterizzato da un orgasmo di tipo mentale, dato dall’umiliazione e dalla tortura. Troverebbe piacere nel giocare al “gatto e al topo” con le proprie vittime, fornendo a esse l’illusione che possano salvarsi o difendersi, per poi prendere nuovo piacere dallo sconforto, dalla disperazione, dall’angoscia e dal panico che ne conseguono nella vittima. Per tale ragione la tendenza sarebbe quella di tenere con sé le vittime per un lungo periodo di tempo. I tratti mentali sarebbero caratterizzati dalla tendenza a imporsi sugli altri, a umiliarli e a trarre soddisfazione dalla sottomissione, dal dolore e dalla sofferenza altrui.

Il sadismo rappresenterebbe una necessità di affermazione dell’Io, siamo infatti dinnanzi a un ribaltamento del trauma in quanto, gli abusi subiti in epoca infantile, avrebbero generato un senso di impotenza; l’agire e il perpetrare la stessa tipologia di violenza gli consentirebbe di agire un controllo e uscire dall’abuso come vincitore. I meccanismi di disimpegno morale che intervengono sarebbero la colpevolizzazione e la deumanizzazione della vittima. Nella deumanizzazione la vittima verrebbe privata delle sue qualità, mentre nella colpevolizzazione l’attenuazione della responsabilità avverrebbe mediante il ribaltamento della situazione, meccanismo per mezzo del quale la responsabilità dell’offesa verrebbe imputata al destinatario di essa. L’atto violento sarebbe quindi visto, da chi lo ha compiuto, come una logica conseguenza d’azione, giustificando in tal modo una condotta reprensibile. Nell’attribuzione della colpa le vittime verrebbero giudicate responsabili di attirare su di sé il maltrattamento e, questo stratagemma autoassolutorio, farebbe della vittima la vera e propria colpevole.

TUTTE LE ULTIME NEWS DI PANORAMA

I più letti

avatar-icon

Cristina Brasi