Il pugno duro di Erdogan e le fiamme di Gezi Park
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Il pugno duro di Erdogan e le fiamme di Gezi Park

Una guida per capire quello che sta accadendo nella capitale turca

Marco Pedersini, Franca Roiatti e Alberto Tetta da Istanbul

1. Chi sono davvero i manifestanti di Occupy Gezi? Per la maggior parte giovani che non si erano mai interessati alla politica, come pure militanti della sinistra radicale, nazionalisti, islamisti, curdi. È assai eterogeneo l’ampio movimento contro il governo di Recep Tayyip Erdogan che sta riempiendo le piazze in tutto il paese. «Per la prima volta persone comuni, intellettuali e attivisti hanno agito assieme dando vita a un movimento che va ben al di là dei partiti tradizionali» spiega a Panorama il sociologo turco Ali Akay.

2. Spinta conservatrice e islamizzazione strisciante. Il 24 maggio il parlamento turco ha approvato una legge che limita la vendita di alcolici dalle 10 di sera alle 6 di mattina nei negozi e a meno di 100 metri da scuole e moschee. Il provvedimento è stato una delle ragioni della protesta. «I giovani hanno risposto scendendo in strada, organizzando concerti nelle piazze contro quella che è stata vissuta da parte dell’opinione pubblica come una messa in discussione del proprio stile di vita» spiega Akay. Da tempo è in atto un’offensiva a «tutela della morale» e a sostegno dei precetti islamici. Negli scorsi mesi sono state introdotte restrizioni alla vendita di pillole abortive. Il premier aveva anche scatenato una bufera paragonando l’aborto all’omicidio. Il gestore della metropolitana di Ankara ha di recente ammonito le coppie a non baciarsi in pubblico. Nel 2011, invece, Erdogan ha vinto la sua più importante battaglia simbolica, togliendo il divieto per le studentesse di indossare il velo all’università.

3. Svolta autoritaria di Erdogan. Molte voci, come quelle dello storico Levent Yilmaz, gridano alla «putinizzazione» di Erdogan, ritenuto sempre più simile nei modi autoritari al presidente russo. Sprezzante la sua reazione alle proteste: «Se loro sono 100 mila, noi ne porteremo in piazza 1 milione». La stampa è fra le prime vittime del pugno di ferro. Durante gli scontri le tv turche trasmettevano rasserenanti documentari e show culinari. Reporter senza frontiere ha definito la Turchia «la più grande prigione per giornalisti al mondo». In carcere ci sono 72 persone legate al mondo dei media, di cui 42 giornalisti (più che in Iran). Di recente ha fatto scalpore il caso del giornalista turco armeno Sevan Nisanyan, condannato a 13 mesi di reclusione per aver scritto commenti «insultanti» su Maometto.

4. L’economia corre, le diseguaglianze pure. I numeri dicono che l’economia turca è quella che più è cresciuta fra i paesi Ocse (dal 2003 a oggi). Negli ultimi quattro anni la Turchia ha creato 4,5 milioni di posti di lavoro (l’Italia, solo nel 2012, ne ha persi 1 milione). La realtà è però complessa: in un paese dove i sindacati sono quasi irrilevanti, la ricchezza è in mano a pochi. Il 40 per cento dei turchi vive con meno di 315 euro al mese. Il 63 cento del valore dei depositi bancari appartiene a meno di metà dei correntisti. «La crisi non è economica, ma sociale» dice Akay. «Siamo troppo sbilanciati sul settore finanziario, perciò, anche se c’è la crescita, spesso i giovani non trovano lavoro».

5. Che fine hanno fatto esercito ed élite laica? La protesta non è espressione del principale partito d’opposizione, il Chp (al contrario imbarazzato per aver detto sì al progetto urbanistico di Gezi Park). La scintilla è partita anche dall’élite secolare, quella da sempre contro i nuovi ricchi che danno forza al partito di Erdogan. La difficoltà del premier e la gestione discutibile della polizia sono buone notizie per l’esercito turco, che prima dell’arrivo dell’Akp al governo aveva un controllo ferreo del paese. Dal 2007 a oggi molti generali sono stati arrestati con l’accusa di complotto. Una lotta culminata in un episodio senza precedenti, quando nel 2011 il premier ha costretto alle dimissioni l’intero stato maggiore della difesa.

6. Erdogan può contare ancora sulla maggioranza del paese. «Il Partito della giustizia e dello sviluppo gode ancora della maggioranza dei cittadini, ma il consenso verso l’azione del governo sta diminuendo. Persone di sensibilità nazionalista e conservatrice che hanno votato il partito del primo ministro guardano adesso con simpatia al movimento che sta attraversando il paese» dichiara a Panorama Foty Benlisoy, storico e attivista di Occupy Gezi. «Tuttavia, se il movimento vuole davvero convincere queste persone, deve esprimere maggiore capacità di dialogo».

7. Il modello turco. L’Islam moderato, il sistema multipartitico che ha portato l’Akp al potere, insieme al forte sviluppo economico e alla collaborazione con l’Occidente hanno fatto della Turchia un modello di riferimento per tutti i paesi protagonisti della primavera araba. Ma adesso molti si chiedono se Ankara rappresenti ancora un esempio.

8. L’Europa sta a guardare. Dopo anni di opposizione all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, soprattutto da parte francese e tedesca, l’elezione di François Hollande all’Eliseo ha segnato una svolta. La Francia ha fatto cadere le pregiudiziali su alcuni capitoli del negoziato. Poco prima dell’inizio delle proteste a Istanbul l’Irlanda, presidente di turno dell’Ue, ha annunciato la ripresa dei negoziati con la Turchia entro giugno. La dura repressione delle manifestazioni ha provocato reazioni preoccupate da parte dei vertici europei. Nel frattempo, i tentennamenti di Bruxelles hanno raffreddato l’entusiasmo dei turchi: il numero dei cittadini favorevoli all’adesione all’Ue è crollato dal 70 per cento del 2005 all’attuale 33 per cento.

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