Terrorismo islamico, ora servono nuove leggi straordinarie
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Terrorismo islamico, ora servono nuove leggi straordinarie

Lo abbiamo già fatto contro la mafia e contro le Brigate rosse: l'emergenza dopo i fatti di Parigi suggerisce la necessità di norme speciali

La fonte che parla con Panorama è quella che si può serenamente definire una vecchia volpe dell’intelligence. Dai tempi delle Brigate rosse ha attraversato tutte le stagioni dell’estremismo italiano. Il suo cervello si è modellato nel tempo e si è sempre sforzato di pensare come il "nemico: "Perché non ci sono poi molti segreti in questo mestiere" dice. "Per contrastare il nemico o pensi come lui, oppure arruoli qualcuno che pensi come lui e sia in grado di aprirti la mente".

La vecchia volpe è oggi una delle punte di diamante della nostra intelligence, insomma uno 007 di rango elevatissimo. "Il nemico oggi è tranquillo, questo è il problema" aggiunge, mentre si tormenta un sopracciglio. La nostra fonte non vuole scivolare nel disfattismo: "Però, se vogliamo raccontarci tutta la verità, noi e con questo intendo dire i nostri apparati di sicurezza preventiva, cioè i servizi segreti, individuiamo sia i terroristi potenziali sia le teste calde. Li espelliamo anche. Ma poi quelli non se ne vanno e spariscono…". E mima il gesto di un prestigiatore che, finito il numero, allarga le mani e le mostra vuote al pubblico, attonito.

In pratica: i meccanismi di espulsione vigenti in Italia non garantiscono che la misura vada a buon fine. Significa, a sentire sia la fonte di primo piano che parla con Panorama sia altri 007 operativi consultati dal nostro settimanale dopo la tragedia di Parigi, che la farraginosità delle norme sulle espulsioni rende pressoché inefficaci le indagini preventive. Questo perché l’espulso può impugnare i provvedimenti in via amministrativa: prima davanti ai Tribunali amministrativi regionali e poi al Consiglio di Stato. La percentuale di chi effettivamente segue questa strada, a sentire gli uomini dell’intelligence, è addirittura prossima al 90 per cento dei casi. In termini pratici vuol dire che il fiancheggiatore dell’esercito islamico, beccato grazie al meccanismo delle intercettazioni nei confronti dei soli sospettati di avere legami con organizzazioni terroristiche, fa perdere le sue tracce. Dopo il provvedimento di espulsione si eclissa, sparisce. Il sospettato, infatti, non può essere arrestato perché non ha ancora commesso alcun reato. Dopo la notifica dell’espulsione non necessariamente rimane in Italia: magari si sposta all’estero, ma rimane in Europa.

Ed eccoci così a un primo punto, reale, da risolvere in via prioritaria se davvero vogliamo prevenire azioni eclatanti anche in Italia: armonizzare la legislazione europea per rendere immediate ed efficaci le espulsioni in tutti i Paesi dell’Unione. Senza nascondere un senso di frustrazione, i nostri 007 operativi lamentano che a causa delle leggi sulle espulsioni abbiamo trasformato in "fantasmi" centinaia, proprio così, centinaia di potenziali killer e stragisti. "In breve" riassume la nostra fonte "manca l’efficacia di trasformare un dato informativo in un’azione reale". Che poi è quanto accaduto in Francia, dove era perfettamente conosciuta la pericolosità dei fratelli Chérif e Said Kouachi e di Amedy Coulibaly, con il dettaglio che però giravano indisturbati per Parigi.

Ma quello delle espulsioni efficaci in Italia e in Europa è solo il primo capitolo di un grande libro che andrebbe scritto per dare una risposta finalmente armonica alla lotta al terrorismo integralista di matrice islamica. Scontiamo anni di defatiganti dibattiti, di infinite scaramucce sul grado che deve avere la nostra risposta alle barbarie. Finora si è sempre ragionato sulla reale consistenza della minaccia per modulare ed eventualmente correggere la legislazione.

Abbiamo perso tempo, questa è l’amara verità. Un investigatore che mastica pane ed eversione fa un ragionamento che farà inorridire molti ma che rende bene l’idea. Argomenta: "Nel nostro codice militare di guerra c’è un articolo, il 167, che punisce chiunque compia atti di guerra contro lo Stato italiano 'senza avere la qualità di legittimo belligerante'. La pena prevista, recita l’articolo, è quella della morte 'mediante fucilazione nel petto'. Mi chiedo: qualcuno, dopo i fatti di Francia, può ancora sostenere che Al Qaeda, l’Is, l’autonominato califfo Al Baghdadi o le brigate di Boko Haram non ci hanno dichiarato guerra dal momento che promettono di distruggerci in casa nostra? Sono o non sono parte di vari eserciti senza divisa, cioè privi della qualità di legittimi belligeranti, che vogliono annientare l’Italia e la civiltà occidentale?". Continua il nostro interlocutore: "«Quella del ricorso all’articolo 167 è ovviamente una provocazione. Ciò che voglio dire è che però in una situazione straordinaria sono necessarie e indefettibili misure straordinarie".

Eccoci così al cuore del problema: le leggi speciali, o straordinarie che dir si voglia. Fuori dal palazzo della politica, nei luoghi deputati cioè alla lotta e alla prevenzione di un attacco terroristico, non si parla d’altro. Bisognerà allora mettere da parte la retorica che vuole, nel nome del sacrosanto rispetto di culture e religioni diverse, un approccio di tipo conservatore che si traduce in inazione. Stabilito e unanimemente accettato il principio che l’Islam nulla ha a che spartire con l’orrore di chi impugna il kalashnikov o semina morte con attentati nel nome del Profeta, occorre agire di conseguenza. Con leggi speciali, esattamente. L’esperienza di questo Paese insegna che fenomeni di deviazione criminale si aggrediscono solo con normative straordinarie. È il caso della mafia e del terrorismo. Per contrastare quei fenomeni accettammo limitazioni erga omnes della libertà, come la militarizzazione del territorio dopo le stragi di Cosa nostra del 1992. Non solo. Abbiamo ingoiato il grande rospo della legislazione premiale con libertà e lauti stipendi assicurati a vita a odiosi assassini che si sono "pentiti" e hanno consegnato i loro complici alla giustizia. O il carcere duro, il famoso 41 bis paragonato a una dolce pena di morte, applicato anche nei confronti di chi non è stato ancora riconosciuto colpevole da un tribunale nel nome del popolo italiano. E quando sentiamo di persone arrestate perché nei loro computer sono state trovate immagini o video di minori che fanno sesso, non ci sfiora il pensiero che possa trattarsi di un errore e lodiamo l’esistenza di norme repressive.

E allora: perché non agire, con la stessa determinazione, contro chi chatta sui social network inneggiando alla guerra santa o al martirio di criminali vigliacchi? Perché non isolarli e condannarli al carcere per questo? E perché non arrestare e buttare la chiave della cella nei confronti di chi si macchia di "concorso esterno" ai terroristi per avere fornito un "contributo" di qualsiasi genere ed entità all’organizzazione "pur non facendo parte del sodalizio"? In Inghilterra esiste già, ad esempio, il reato di "incitement": punisce chi incita a commettere atti di terrorismo ed è sufficiente diffondere istruzioni su internet su come fabbricare ordigni esplosivi per finire in cella.

Poniamoci allora una domanda: se ha ancora senso in Italia prevedere e perseguire penalmente l’apologia del fascismo, perché allo stesso modo si deve aver timore d’introdurre una misura che ricopiando le stesse parole contro l’apologia del fascismo non sia destinata ai movimenti terroristici? Facciamo un esempio ancora più concreto. Trovo che nessuno oggi possa adontarsi o urlare a una misura antidemocratica se oggi si mutuasse alla lettera quanto scritto nella legge 645/1952 con l’eccezione di cambiare la parola "fascismo" con "terrorismo radicale". Il risultato (e ripeto sto copiando parola per parola) sarebbe la previsione di punire chiunque "promuova od organizza, sotto qualsiasi forma, la costituzione di un’associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità di organizzazione terroristica radicale, oppure chiunque pubblicamente esalti esponenti, princìpi, fatti o metodi oppure le sue finalità antidemocratiche".

C’è davvero qualcuno che potrebbe alzare il ditino per contestare questa norma? O vogliamo accettare come rispetto della libertà altrui la prospettazione e l’invito all’assassinio indiscriminato dei nostri figli solo perché considerati indefeli? Oggi, sul tavolo della risposta seguita agli attacchi francesi, si ripropone l’istituzione di una procura antiterrorismo sul modello della superprocura nazionale antimafia. Stefano Dambruoso, che il terrorismo islamico l’ha combattuto per davvero a Milano, oggi è un parlamentare e sa di che cosa parla quando insiste nella creazione di questo organismo: "Ma occorre che la risposta sia coordinata a livello europeo. Sul piano delle espulsioni, certo e in prima battuta. Ma anche su quello dell’intelligence con un’integrazione reale tra i vari servizi segreti in modo che uno 007 francese con radici maghrebine possa essere infiltrato dai nostri servizi in una cellula o in un gruppo attivo in Italia".

Quanto alla superprocura antiterrorismo, sarà necessario che a essere impiegati siano soltanto magistrati specializzati nel terrorismo. È questo un elemento centrale, perché le competenze specifiche sono poche e vanno indirizzate al meglio. Indagare come oggi si fa in ogni singola città è operazione velleitaria, perché il tema terrorismo comporta indagini in tutto il mondo e la concentrazione in una superprocura velocizzerebbe anche eventuali rogatorie.

Le misure da adottare non sono poche. In questo pacchetto andrebbe inclusa una norma che punisca non solo chi seleziona, ma anche chi viene scelto per andare a combattere: oggi lo si può fare solo provando che (dopo un eventuale reclutamento avvenuto in Italia) il soggetto si è affiliato a un’organizzazione terroristica, cosa ovviamente quasi impossibile. Ci sono poi quanti, e non sono pochi, ritengono utile una sorta di "cyber command", per coordinare anche il monitoraggio del web che oggi viene fatto separatamente da forze dell’ordine e servizi.

Su questo punto interviene un altro 007 interpellato da Panorama, che di lavoro fa proprio questo: "Non c’è privacy che tenga rispetto alla pericolosità della minaccia che dobbiamo combattere" sostiene. "So di toccare un nervo scoperto, ma questo è. Il reclutamento passa sempre, sempre dalla rete. È un passaggio obbligato, riscontrato nel tempo. E accanto alla parte repressiva ci vorrebbe un’attività digitale di deradicalizzazione per lanciare messaggi differenti e contrari rispetto la jihad e al proselitismo radicale. Si tratta di creare e immettere nel web siti e luoghi informatici capillari, che dovrebbero essere incentivati dal Governo".

E a questo punto val la pena sentire quanto dichiarato a Panorama da un decano dei servizi d’intelligence italiani: "Da noi" commenta "si è portati spesso a confondere il campo della tattica con quello della strategia. L’intelligence deve occuparsi della tattica, ma la politica dovrebbe avere la responsabilità della strategia. Per avere strategia ci vuole continuità. E che cosa succede invece in Italia? Chi arriva al potere cambia i vertici e il nuovo capo che arriva sostituisce tutta la catena di comando. Risultato: si riparte praticamente da zero".

La parola "sicurezza" viene dall’espressione latina "sine cura": significa che uno Stato garantisce che un suo cittadino possa vivere senza preoccupazioni. Il principio aveva senso fino a quando i singoli Stati dovevano contrastare nemici interni per mantenere fede al patto sociale. Oggi non è più così. Il serpente che aggredisce l’Occidente (e si badi bene che si parla di Occidente, non di una singola nazione) arriva dall’esterno e vuole avvelenare indiscriminatamente tutto e tutti. C’è qualcuno ancora disposto a illudersi, mentre scorrono le immagini dei fratelli Kouachi e di Amedy Coulibaly in azione, che la camomilla possa ammansire il serpente? O che, ancora peggio, ogni singolo Stato di questo Occidente sotto attacco debba illudersi di potersela cavare da solo?

Ansa
Le prime immagini del blitz a Parigi

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Giorgio Mulè