La gogna e il ministro della Giustizia
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La gogna e il ministro della Giustizia

Che cosa dovrebbe fare (e soprattutto dire) il ministro Anna Maria Cancellieri di fronte agli attacchi mediatici

Scuse e dimissioni? Oppure altre scuse, ma resistenza? Anna Maria Cancellieri, ministro della Giustizia, è tipo troppo tosto perché sia plausibile darle consigli. Al bivio tra l'uscita dal governo per l'imbarazzo del Ligrestigate e l'impegno a restare anche per cambiare le cose, è certo però che il tiro al Guardasigilli esercitato da giornali politicamente interessati ha troppe ombre per essere uno sport ammirevole. 

Intendiamoci: il tema di una polemica c'è tutto. Sicuramente non è commendevole il comportamento di un ministro della Giustizia che interviene, sia pure moderatamente, per segnalare il caso di una donna, figlia e nipote di amici (i Ligresti), che in cella dà evidenti segni di grave malessere, non si alimenta, sta male. Nei confronti del Guardasigilli, però, si è scatenata una campagna che va oltre il giusto e il non-giusto, e che probabilmente punta al fare cadere il governo Letta con il primo obiettivo di favorire la campagna elettorale di Matteo Renzi.

Ma non è questo il punto. La questione centrale è, ancora una volta, la Gogna. Cioè l'uso distorto di carte giudiziarie, sapientemente distillate nell'abbraccio fra pubblici ministeri e redazioni amiche. Anche con la violazione del segreto istruttorio. Sì, perché le carte usate da Repubblica hanno riguardato prima alcune intercettazioni penalmente irrilevanti, diffuse ad arte, ma ora riguardano anche tabulati telefonici che non risultano fra le carte depositate agli atti. Perciò sono coperti dal segreto d'ufficio, come tante volte capita.

E qui arriviamo al punto. Oggi a questo siamo arrivati: a un ministro della Giustizia il quale prova sulla sua pelle che cosa voglia dire essere sbattuti sui giornali, che cosa significhi vedere riportate proprie frasi pronunciate al telefono - e penalmente irrilevanti - ma consegnate a un cronista amico da un agente della polizia giudiziaria o forse da un magistrato. Il ministro Cancellieri ha finalmente il senso tattile del degrado cui è arrivata la giustizia italiana. Che si fa strumento di parte, che diventa parte essa stessa.

Deve parlare, il ministro Cancellieri. Qualunque cosa decida sulla propria sorte, deve lanciare un allarme: e dev'essere alto, definitivo, non eludibile. Ricordando quello che, su questo punto fondamentale, hanno detto due giuristi di estrazione politica avversa, ma entrambi attenti alle garanzie fondamentali, allo Stato di Diritto: Carlo Nordio e Giuliano Pisapia. 

Dice Carlo Nordio: «I magistrati sono responsabili di una gestione sapiente di atti istruttori di cui dovrebbero garantire la segretezza e di cui invece consentono, per vanità o per noncuranza, una divulgazione pilotata. E i giornalisti sono corresponsabili, perché barattano sensazionali anticipazioni in cambio di articoli elogiativi sull’abilità degli investigatori. Ma sviliscono il loro mestiere, perché invece di cercare notizie con faticose ma stimolanti controinchieste, preferiscono appoggiarsi alla mano amica di un poliziotto o di un magistrato. Così, come tutti sanno, prima ancora che in tribunale le intercettazioni finiscono, giudiziosamente tagliate e sapientemente pilotate, sulle pagine dei giornali». «La colpa» sostiene Nordio «sta in tutti noi, che abbiamo accettato questa porcheria senza un esame critico delle sue conseguenze civili e morali. Forse perché, abituati per secoli all’umiliazione dei sudditi, non abbiamo ancora acquistato il vigore dei cittadini».

E Pisapia, con altrettanta chiarezza: «Ho l’impressione che molti non vogliano vedere la barbarie e chiudano in maniera pregiudiziale la porta in faccia a qualsiasi cambiamento. Molti, non so se in buona o in cattiva fede, tendono a confondere il diritto-dovere d’informare con il preteso diritto di commettere reati; confondono la libertà di stampa con la libertà di diffamare, di disinformare, di ‘sputtanare’. Non ci sono scappatoie: il dibattimento deve essere pubblico, ma le indagini non sono pubbliche e i relativi atti, comprese le intercettazioni, non sono pubblicabili proprio a garanzia della genuinità delle indagini».

Conclude Pisapia: «È inaccettabile che sui giornali arrivino ogni giorno testi di interrogatori, testimonianze, parole carpite da intercettazioni. Usare un frammento di notizia, come spesso si fa sui quotidiani italiani, significa dare un’informazione fuorviante». Conclude Nordio: «Chi maneggia questo strumento abominevole alimenta con carne umana il coccodrillo, nella speranza che mangi il proprio avversario, senza sapere che alla fine il coccodrillo mangerà anche lui. Governo e Parlamento non hanno mai fatto nulla. Adesso, prospettando la punizione dei giornalisti che pubblichino conversazioni intercettate, si getta solo benzina sul fuoco perché non si rompe il termometro per eliminare la febbre. I giornalisti sfornano un prodotto già confezionato da magistrati, avvocati, poliziotti. Ed è lì che bisogna intervenire». 

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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