«La sicurezza sul lavoro? Un fatto culturale»
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«La sicurezza sul lavoro? Un fatto culturale»

Andrea Maffei di Tharsos parla, in occasione della Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro, del problema delle morti bianche e di come sensibilizzare i cittadini sul tema

Il 28 aprile è una data importante: ricorre la Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro promossa dall'ILO (Organizzazione internazionale del Lavoro). E mentre in televisione continuano a passare spot su articoli di antinfortunistica, promossi da soubrette e influencer, sul campo si continua a morire. Ultimo in ordine di tempo il giornalista e interprete ucraino Bogdan Bitik colpito a morte, probabilmente dai soldati russi, sulla strada per Kherson, in Ucraina. Accompagnava il collega italiano Corrado Zunino, ferito ma salvo grazie al giubbotto antiproiettile (che Bogdan non indossava). «La situazione era calma» si legge nei vari reportage che battono la notizia. È questa la frase e anche la ragione più comune legata alle morti bianche sul lavoro: la presunta assenza di pericolo. Un luogo comune, come i dieci scelti da un’azienda italiana che si occupa di sicurezza sul lavoro, la Tharsos, per sensibilizzare sul tema. Si parte dai social network per arrivare nelle piazze delle principali città italiane. Un processo lungo, che ha tanta strada da percorrere, una lotta contro il tempo, perché ancora oggi si registrano migliaia di morti bianche all’anno. Facciamo un po’ di chiarezza sull’argomento con Andrea Maffei, ai vertici di Tharsos.

Come è cambiato il modo di comunicare ciò che dovrebbe essere alla base di ogni mestiere, la sicurezza?

Il modo di comunicare cambia costantemente. Nel 2011 è stata varata una delle iniziative di più largo respiro della Storia della Repubblica, dopo la scuola dell’obbligo. Con un accordo Stato/Regioni, è stato sancito l’obbligo di formazione in ambito sicurezza per tutti i lavoratori, indipendentemente dal contesto in cui esercitano. In questi ultimi anni in materia di salute e sicurezza abbiamo fatto grandi progressi, eppure, il risultato di tanto impegno è demoralizzante: se si mettono a paragone il numero delle morti bianche del 2011 con quelle del 2022, il dato è impressionante… non è cambiato quasi nulla! Le curve sono quasi le stesse, i morti e gli infortuni gravi sono immutati. Numeri sostanziosi, tre/cinque persone al giorno (più di mille all’anno) che la sera non tornano a casa dalla propria famiglia. Dati che ciascuno di noi sente ogni giorno, ma che quasi sempre sono seguiti dall’indifferenza o da un cinico «a me non può succedere».

Il corto circuito dov’è? Le norme non bastano?

Di per sé non sono sufficienti, manca qualcosa. E lo abbiamo imparato con l’avvento della pandemia. Sono i nostri comportamenti che fanno la differenza, non soltanto il sapere cosa fare. Dal punto di vista teorico, tutti conosciamo l’approccio corretto, eppure in certe situazioni anche nella vita quotidiana, capita costantemente di commettere leggerezze, gesti sciocchi di cui non pesiamo le possibili conseguenze. È proprio partendo da questi atteggiamenti che abbiamo deciso di lanciare la nostra campagna di sensibilizzazione. Dieci luoghi comuni legati alla sicurezza che tutti sentiamo dire ogni giorno: «Abbiamo fatto sempre così», «Tanto qui non cambia niente», «Questo non è un problema mio», e così via, e siamo partiti da una campagna social. Un messaggio non professionale, non parliamo ai nostri clienti abituali ma alla comunità. Prendiamo questi messaggi e li portiamo grazie a dei camion-vela in cinque grandi città italiane: Torino, Milano, Roma, Firenze e Vicenza. Transiteranno in luoghi simbolici, davanti alle Università, nei centri del potere decisionale, davanti ai Comuni, al Parlamento, e cercheranno di attirare l’attenzione. È questo il focus: alzare il livello di guardia.

Una frase della campagna di sensibilizzazione

Spesso l’elmetto e la scarpa antinfortunistica si hanno ma non si usano. Manca amor proprio?

Manca la consapevolezza, rendersi conto che non succede sempre e solo agli altri, e la distrazione o l’imprevisto accadono a tutti. Dobbiamo fare i conti con questa situazione. Parliamo di un approccio di tipo culturale che sarebbe da rivedere. Gran parte dei lavoratori ha a disposizione il caschetto o la scarpa ma se leggiamo i dati, scopriamo che la curva degli infortuni ha due picchi: il primo in età giovanile, il secondo in età avanzata. Il che significa che i ragazzi, avendo appena iniziato a lavorare non sanno ancora come muoversi, mentre i più anziani sottovalutano il pericolo perché: «Non mi è mai successo nulla in 30 anni, figurati se succede adesso». Che è una delle frasi dei nostri spot. E questo discorso vale che tu stia montando un ponteggio, che tu stia allestendo il palco per un concerto, o che tu faccia l’inviato di guerra.

Niente aggiornamenti tecnici, quindi. Spazio a immagini, a frasi che vogliono colpire, emozionare, portare a riflettere. Parlate ai giovani, in pratica e per farlo avere scelto il loro linguaggio.

Abbiamo scelto i social network e le piazze, non andiamo nelle fabbriche o negli uffici dove questi messaggi sono propinati ripetutamente. Vogliamo parlare con quella fascia di persone, con le madri, con i giovani, che pensa che la sicurezza sul lavoro sia un tema non suo o che non esiste.

Come è cambiato il modo di mettere in sicurezza un posto di lavoro dopo la pandemia?

È cambiato l’approccio alla gestione di alcuni temi, il concetto di estensione di responsabilità; non basta che ci sia una regola, se non la applichi il problema non sparisce. Non basta acquistare una scarpa antinfortunistica, se poi la si lascia in un armadietto. L’evoluzione del modo di lavorare dipende da come ci comportiamo tutti i giorni. Abbiamo imparato che neppure lo smart working è indenne da questa riflessione. Il lockdown ci ha insegnato quanto anche restare a casa, in un luogo apparentemente privo di pericoli, sia deleterio per l’individuo, che può cadere in una condizione di stress, fino a farla diventare una malattia professionale. Il tema dello smart working necessita sicuramente di riflessioni, anche perché, per ora, rimane in un limbo di incertezza normativa. La lezione del Covid è stata utile ma non sempre è stata colta in modo giusto e la soglia di guardia si è abbassata non appena il livello di emergenza si è ridimensionato. Non si parla di mascherine o altri dispositivi, il discorso è più ampio: se fai attenzione, alcune cose non accadono, gli effetti non ricadono sugli altri. È questo l’insegnamento più importante che dovremmo imprimerci nella mente.

C’è la sostanza e ci sono le mode. Pensiamo ai numerosi spot televisivi legati a scarpe antinfortunistiche, che scelgono soubrette per lanciare il loro messaggio. Purché se ne parli o sarebbe meglio andare a fondo?

La platea dei soggetti obbligati a usare questo abbigliamento è aumentata tanto, le condizioni di lavoro sono molto cambiate negli ultimi decenni, non fosse altro per un concetto di globalizzazione. Le regole, e la loro applicazione sono di uso comune su scala nazionale. Per lavorare in certi mercati, per entrare in certe catene di fornitura serve rispettare rigidi protocolli di controllo. Parlando di spot in tv, valgono le stesse le regole della comunicazione: se vuoi vendere un prodotto lo accosti a qualcosa di famigliare per il tuo interlocutore. Penso sia un bene che la sicurezza inizi a rientrare in una logica evolutiva, che non sia più relegata agli addetti ai lavori, che si faccia conoscere. Il modo di comunicare scelto da Tharsos segue lo stesso approccio: niente normative, niente servizi, solo messaggi immediati, usando le stesse parole che il nostro interlocutore sente ogni giorno, o che lui stesso ripete di frequente. La logica è la stessa della soubrette, la cui funzione è di veicolare un messaggio sfruttando un’immagine che entra nelle case di tutti, quotidianamente. Quando parliamo di etica del lavoro, parliamo anche di questo, e dobbiamo ricordarci che la sostenibilità non è solo una questione ambientale, vuol dire vivere meglio e più sicuri.

Nel mezzo di un conflitto, come si forma dal punto di vista della sicurezza un giornalista che va in guerra?

Con un meccanismo preciso di valutazione dei rischi, si stabiliscono i confini dell’attività che si andrà a svolgere e ci si muove di conseguenza. La formazione, mutuata da quella militare, viene fatta su diversi livelli e punta a spiegare come stare sul campo, i rischi dell’essere in uno stato di guerra, si imparano le nozioni base del primo soccorso, si fa preparazione atletica, perché i momenti più concitati richiedono rapidità nei movimenti.

L’intelligenza artificiale potrà, un giorno, migliorare la sicurezza sul lavoro?

Tutto il tema dell’industria 4.0, tutti i processi di automazione delle macchine e degli impianti, che sono un po’ i progenitori dell’intelligenza artificiale, viaggiano in quella direzione, ossia creare logiche dove alcuni processi non necessitano dell’intervento umano. Il che chiaramente corrisponde ad un abbassamento drastico degli infortuni. Crediamo molto nell’interazione con l’IA, così come nella tecnologia e nei sistemi di comunicazione meno ordinari. Una delle cose che ci ha contraddistinto negli ultimi anni è stata la scelta di veicolare i messaggi legati alla sicurezza usando cartoni animati, giochi di ruolo, escape room e teatro. Un approccio che dieci anni fa veniva deriso, ma che ad oggi dà risultati indiscutibili. Il gioco è un veicolo perfetto di apprendimento, attira l’attenzione, fa divertire, e nel frattempo insegna qualcosa. Anche in questo la tecnologia verrà in aiuto, grazie alla realtà virtuale, anche se ad oggi non ha costi sostenibili.

Qual è il vostro raggio d’azione?

Il nostro raggio d’azione è l’Italia e in buona parte anche l’Europa, e copriamo diversi ambiti: industria, servizi, editoria, trasporti. Abbiamo una fascia di supporto trasversale che ci aiuta a vedere e anticipare tante problematiche. I nostri gruppi di lavoro sono composti da ingegneri, avvocati, chimici, fisici, geometri, grafici, comunicatori, architetti, video maker perché il concetto di assistenza è diventato trasversale. In questo senso servirebbe un grande supporto del sistema educativo italiano per sviluppare queste figure professionali nelle Università e in percorsi di master dedicati. Investite in questo settore, la sicurezza ha uno spettro d’azione ampio, che interessa tanti ambiti e che ti fa toccare con mano il frutto del tuo lavoro, oltre a darti una visione ampia di tutto ciò che gravita intorno ad una normale attività. È un lavoro che apre la mente, ed è utile, soprattutto quando riusciamo a imprimere a fondo in maniera decisa i nostri messaggi.

Dal punto di vista lavorativo come si sta, in definitiva, in Italia?

Dipende dal mestiere che fai e dall’azienda in cui sei. Ci sono settori più a rischio di altri, settori più indietro di altri. Basta dare un occhio ai numeri: il mondo dell’edilizia, quello agricolo o delle piccole imprese, sono soggetti al più alto rischio di incidente. E sono settori in cui la sicurezza è percepita solo come un costo, un rallentamento, un inutile processo burocratico. È su questo che bisognerebbe fare leva, non distribuendo multe e ammonimenti, ma insegnando un metodo consapevole di lavorare.

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Nadia Afragola