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L'impegno della scuola per la lingua italiana contro gli inglesismi

Inglesismi e acronimi sono ormai dappertutto. Ora una proposta di legge prova a limitarli e il dibattito si infiamma. In tutto questo c’è da chiedersi che ruolo possa e debba giocare la scuola e se sia vittima o carnefice della lingua italiana

La scuola italiana ha tantissimi problemi e tra questi condivide, con la società contemporanea, l’essere travolta da acronimi e inglesismi. Il modulo di coding, le capacità di problem solving, le difformità generate dal digital divide, la piaga dei NEET e le opportunità del BYOD: progetti interessanti, oppure no, situazioni in evoluzione da saper gestire e problemi concreti da risolvere. Queste sono le realtà celate da questi inglesismi e da questi acronimi che allontanano dalla comprensione immediata, che sfumano un’emergenza, che complicano affari semplici. Sono espressioni che si sentono ogni giorno se si parla di scuola, e fuori dalle mura scolastiche va anche peggio, perché ci sono moltissime altre espressioni analoghe, capillarmente inserite per ogni contesto, ma che hanno in comune la derivazione straniera, per cui una situazione è cringe, questo abito fitta bene, quell’atleta sta overperformando e così via.

Perché ci si esprime così? Per moda, forse, per darsi un tono, certamente, ma anche e soprattutto per nascondere l’incapacità di esprimersi con completezza nella nostra lingua madre.

Attenzione, l’italiano è una lingua viva e per questo è sottoposta a continua modificazione, per cui è normale che accolga costantemente nuove espressioni, perdendone altre. E’ questa la sostanziale differenza tra una lingua parlata e una invece cristallizzata, come il latino, non morta, ma più correttamente antica e sottratta all’uso, per cui fissata, per sempre.

Però c’è un però. Nonostante si debba considerare fisiologico il continuo mutamento della lingua, accogliendone anche l’impoverimento, va fatta una riflessione sulla scelta di chi parla se preferisce sempre più spesso un’espressione derivante dall’inglese, riportata pari pari come appunto “cringe”, oppure italianizzata in malo modo, come l’orrendo “fittare”, per “calzare”, “indossare”.

L’italiano non scomparirà per qualche centinaio di parole brutte inserite nel vocabolario, ma gli italiani sprecano un’occasione ogni volta che preferiscono conoscere un vocabolo esotico anziché provare interesse per un omologo italiano. La nostra lingua è lì, pronta per essere utilizzata: non serve una guerra a tutta quell’area semantica di determinati ambienti lavorativi possa essere pratica, perché non è questione di purismo, ma di senso estetico, opportunità e valorizzazione di ciò di cui disponiamo.

La scuola in questo può fare il suo, ad esempio costruendo, negli anni, lezioni che consentano di esercitarsi nell’uso dei sinonimi, dalla primaria, con buone pratiche che mostrino la bellezza e la precisione di qualificare con l’aggettivo adatto. Sempre. Così un cielo può essere azzurro, ma a volte sarà cerulo, altre meno intenso per cui celeste, altre ancora turchese. Colori simili, ma diversi: uno per il mare d’estate e uno per quello autunnale, uno per il cielo di Milano, un altro per quello della campagna collinare, un altro ancora per quello dolomitico.

Alle scuole medie si può investire nell’acquisizione del lessico specifico, indagando aree semantiche diverse per diversi contesti, imparando a utilizzare il vocabolo appropriato a seconda della situazione, cogliendo le sfumature che ci sono tra guidare e pilotare, condurre e dirigere, e così via.

Alle superiori, invece, si potrà utilizzare la poesia per scegliere il vocabolo esatto, per suono e per significato. I grandi maestri della nostra letteratura insegnano questo: Giuseppe Ungaretti fa risuonare la parola pura, scegliendo quel determinato termine che non potrebbe essere rimpiazzato da nessun altro, e così la poesia di Eugenio Montale è un’enciclopedia sinonimica straordinaria per ricchezza e bellezza.

L’italiano ha accolto nel corso della sua storia influenze greche, dialettali, regionali, inglesi e di altri luoghi, arricchendosi, e così potrà ancora accadere. Certo, va valorizzata la sua capacità di esprimere tutte le sfumature di cui c’è bisogno, ma questa cura lessicale non è data per nascita, al contrario va indagata, ricercata e coltivata, facendo prevalere la curiosità e l’impegno necessario, oppondendosi all’immediatezza che inevitabilmente impoverisce e mortifica. La scuola se ne faccia carico, non per amor patrio, ma per la bellezza che porta con sé alle generazioni che accoglie ogni mattina nei suoi locali sghembi.

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Marcello Bramati