Aggiungi un Renzi a tavola
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Aggiungi un Renzi a tavola

L’ex sindaco rifugge dalla vita mondana e dai centri di potere della capitale. Ma c’è chi lavora per entrare nelle sue grazie

A Matteo Renzi non piace Roma, e infatti non ha intenzione di andare a vivere a Palazzo Chigi. Ma Roma impazzisce per Renzi. E nei salotti, dove per tradizione costruire relazioni equivale a creare il capitale, la frase d’ingresso, la nuova parola d’ordine è: "Matteo? Ma sì, io lo conosco da tanti anni".

E così la città pigra e ministeriale che non lo ha mai premiato ora lo cerca, lo lusinga, lo vuole a tutti i costi. E tesse intorno al presidente del Consiglio ragazzino una trama di amicizie e di rapporti spesso persino a sua insaputa. Perché l’unico attico romano che forse, forse, Renzi ha frequentato sul serio è quello di Carlo De Benedetti a via di Monserrato.

Troppo furbo e senza clientele consolidate, Renzi non ha lo stesso sapore della tradizione andreottiana, e i potenti della città, l’aristocrazia un po’ papalina che fu prima amica di Francesco Rutelli e poi di Walter Veltroni, i costruttori trasversali, i palazzinari, la sinistra ricca e borghese, non lo hanno mai sostenuto davvero. Prima d’oggi. In città alle primarie dell’anno scorso fu infatti Gianni Cuperlo a trionfare sul giovane fiorentino, con il 54 per cento delle preferenze, quasi 20 punti in più del suo concorrente, fermo al 33 per cento. E la sconfitta più sonora fu proprio nei quartieri del centro.

"Renzi è uno che sfascia o si sfascia", dice il giornalista Gianni Minoli, che conosce Roma e conosce anche le meccaniche del potere. "Da sempre i rivoluzionari spaventano i conservatori" dice. Ma poi i conservatori scoprono il fascino del rivoluzionario, specie se questo conquista sul serio il Palazzo d’Inverno (o in questo caso Palazzo Chigi). E dunque Roma scopre Renzi, lo rivaluta nelle conversazioni a casa dei principi Borghese e a Villa Fendi, nel salotto di Francesco Gaetano Caltagirone, in ambienti etichettosi, lisci, talvolta malinconici, gli stessi effigiati dall’occhio impietoso del fotografo Umberto Pizzi, che è spirito del tempo salottiero italiano: donne dal trucco in stile macchiaiolo, uomini rotondi, cinematografari col sussidio pubblico, giornalisti e aristocratici un po’ vizzi.

In questi ritrovi si esercita una forma un po’ frivola, un po’ troppo sociale e vanitosa del sentimento di venerazione, che è uno dei più nobili sentimenti insiti nell’uomo, purché praticato con misura. Così si parla di Renzi, ma Renzi non c’è mai. E dunque si fa a gara per avere quanto di più vicino al Rottamatore possa offrire il mercato, spesso – soprattutto – il fidatissimo Dario Nardella, che malgrado sia tornato a Firenze nel ruolo di vicesindaco e prossimo candidato sindaco, a Roma ci si trova, dicono, molto bene. Più discreti, attenti, persino troppo, sono invece gli altri membri del cerchio magico renziano, Luca Lotti, Francesco Bonifazi e Maria Elena Boschi. Quasi inavvicinabili.

Ma la partecipazione di Roma al successo del giovane fiorentino è talvolta ragionata, silenziosa ma non troppo, curiosa ma equilibrata, laterale, come a casa di Chicco Testa, ex presidente dell’Enel e di Lega Ambiente, amico di Massimo D’Alema e poi di Veltroni, lui che si è sempre mosso con garbo tra capitale pubblico e capitale privato. "Vogliamo essere gli ultrà renziani" racconta Testa, che nel salotto della sua casa di Trastevere offre agli ospiti cibo srilankese e polvere di renzismo. E lì si possono incontrare Andrea Romano e Irene Tinagli, deputati di Mario Monti, amici di Luca Cordero di Montezemolo da sempre avvolti dall’idea della rottamazione. Ma anche gli ex dalemiani Fabrizio Rondolino e Claudio Velardi, lo scrittore Umberto Contarello, che ha sceneggiato La grande bellezza, il film di Paolo Sorrentino.

Simpatici, intelligenti e – come si dice – anche un po’ paraculi, scherzano dicendo d’essere destinati ai giardinetti. Eppure insieme hanno lanciato
un sito internet che sarà online tra pochi giorni: ilrottamatore.it. "Vedo in Renzi quello che doveva essere D’Alema" sorride Rondolino, ex editorialista del Giornale, adesso a Europa, lui che con Velardi fu il Lothar dell’ex presidente del Consiglio baffuto. "Siamo rottamati e felici" spiega Testa mentre lavora alla costruzione di un think tank renziano con base a Roma. E c’è un po’ di gioco e forse un po’ d’innocua illusione nella capitale che si prepara ad accogliere il gran fiorentino, lui che intanto la sera non va nemmeno al ristorante, che a pranzo mangia un panino seduto a uno dei tavolini fuori dal bar di via delle Fratte, a un passo dalla sede del Pd, il bicchiere di Coca-Cola davanti a sé.

Sa che l’uomo politico deve agire sull’immaginazione delle folle allo stesso modo della vedette cinematografica e del calciatore: audace, un po’ misterioso. Semplice. E d’altra parte Renzi, bocca mobile e pronta all’ammicco e all’ironia, intuisce, e bolla con penosa amarezza i piccoli giochi d’equilibrio, le ipocrisie e le astuzie del generone, l’arroganza delle classi al comando nella capitale, persino l’approssimazione del nostro cinema e dei salotti attorno ai quali ruota questo demi-monde. A Marta Marzotto preferisce Oscar Farinetti, agli attori delle fiction della Rai preferisce Pif. E in questo assomiglia a Silvio Berlusconi, che i rapporti romani li ha sempre rifuggiti, affidati alle diplomatiche mani di Gianni Letta. E dunque Renzi ha presentato il libro di Bruno Vespa, ma eccettuata la compagnia di De Benedetti e pochissimi altri, a Roma, il giovane fiorentino rifiuta tutto. E infatti grande è l’attesa, e il mistero, per le decisioni che dovrà prendere nel prossimo giro di nomine nelle industrie a partecipazione statale (vedi articolo a pag. 54).

Ogni giorno ci sono cinque o sei inviti, si moltiplicano le sollecitazioni alla sua segreteria, le telefonate, i biglietti, le lettere raccomandate, le pressioni dirette o per interposta persona: presiedere a un dibattito, partecipare a una tavola rotonda, dire due parole alla presentazione di un libro, intervenire alla cena degli amici del Colosseo, all’inaugurazione dei pittori di Via Margutta... Niente. Per incontrarlo a Roma c’è un solo sistema: bisogna fare anticamera all’Hotel Bernini, in piazza Barberini, tra l’ambasciata americana e il ministero dello Sviluppo, dove Renzi risiede due o tre volte alla settimana. E il rosario delle autoblu, dei lampeggianti, degli autisti e degli uomini di scorta che sempre sostano di fronte alla facciata di questo albergo di proprietà di Bernabò Bocca, senatore di Forza Italia e genero di Cesare Geronzi, già da solo rende l’idea del brulichio di potere che ne anima la hall e la bellissima terrazza: appena 120 camere, un solo ristorante, un solo bar. Facile incontrarsi.

È l’albergo preferito dalla Confindustria, ed è talvolta sufficiente passeggiare nella sala comune per salutare Emma Marcegaglia, che prenota sempre la stessa camera, o incrociare i leader della Confindustria siciliana Ivan Lo Bello e Antonello Montante, persino il presidente Giorgio Squinzi. È in questo albergo che Renzi riceve e rifiuta di ricevere. E adesso che a Roma tutti lo cercano e tutti lo vogliono, lui ascolta, ma senza mai dire una parola definitiva, con quella maschera impassibile, serrata, dell’uomo a cui si chiede del denaro o un favore, e che vi lascerebbe morire davanti a sé senza fare un gesto per salvarvi. Con lui non riesce a nessuno di condurre il gioco secondo le regole del club romano, di svelare cioè la verità a poco a poco, con cautela, di farla balenare e dissimularla di volta in volta: lusinga, contrattazione, baratto, scambio. Considera Roma con disincanto e distanza, forse persino con preoccupazione. Non gli piace, non vorrebbe nemmeno venirci a vivere. Ma intanto la città del potere impazzisce per lui. E lo reclama.

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