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EPA/Adria Ropero
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Referendum in Catalogna: lezioni per l'Italia

Abbiamo molto da imparare dal caso spagnolo. A partire dagli effetti della centralizzazione fiscale e della globalizzazione

Quanto è unico il caso dello scontro tra Madrid e Barcellona e quanto invece può insegnarci qualcosa sulle tensioni che oppongono oggi le periferie (più) ricche d'Italia al centro?

Sono maggiori le peculiarità irripetibili o piuttosto gli elementi comuni tra la vicenda della Catalogna e quella della Lombardia o del Veneto?

Partiamo da una considerazione: a forza di andare avanti, ognuno per la sua strada, il governo nazionale di Madrid e quello regionale della Catalogna rischiano di produrre uno scontro che lascerà sul campo morti e feriti, non solo metaforici.

È un paradosso che si arrivi a un esito simile nella Spagna di Mariano Rajoy (e non di Francisco Franco), la cui Costituzione assicura amplissime autonomie alle varie "comunità" che compongono il regno.

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Barcellona, Placa de Catalunya, 1 ottobre 2017 (Chris McGrath/Getty Images)

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Come si sia arrivati a tanto ha dell'incredibile, e forse proprio la grandissima autonomia che la Costituzione garantisce alla Catalogna ha qualche responsabilità. Al riparo della Costituzione, il senso di estraneità tra Barcellona e Madrid è cresciuto anno dopo anno, alimentato dalla diffusione della lingua catalana.

Perché a ben guardare la differenza tra "spagnoli" (ma dovremmo forse dire castigliani) e catalani sta soprattutto nella lingua.

La Spagna "nasce" infatti con l'unione matrimoniale e dinastica tra Ferdinando di Castiglia e Isabella di Aragona, i "re cattolici", quelli di Colombo e della conclusione della Reconquista, e di lì origina il predominio di Madrid (allora di Toledo, per la verità) su Barcellona.

In due occasioni la Catalogna cercherà la strada dell'indipendenza, sfruttando sulla rivalità delle potenze europee, puntando prima sulla Francia (1641-1652) e poi sull'Inghilterra (1705-1713, nell'ambito della guerra di successione spagnola): in entrambi i casi uscirà sconfitta e perderà i suoi antichi diritti. Molti anni dopo, paradossalmente, sarà proprio la ferma, incondizionata e generosa lealtà dimostrata dalla Catalogna alla Repubblica spagnola durante la Guerra civile (1936-1939) a portare all'ennesima durissima repressione delle istanze autonomiste da parte di Madrid.

Ma perché la Costituzione autonomista dovrebbe aver esacerbato il sentimento di estraneità di Barcellona rispetto a Madrid?

L'AUTONOMIA FISCALE

La risposta è a mio avviso semplice: perché non prevede alcuna autonomia fiscale per la Catalogna, la totalità delle cui imposte confluisce al centro, essendo poi lo Stato spagnolo a decidere quanto rifondere alla Generalitat catalana.

Negli anni "buoni", quelli della prolungata crescita economica del Paese legato alla sua accelerata modernizzazione dopo il letargo franchista, tutto sommato tornavano a casa risorse sufficienti per contribuire a mantenere la Catalogna all'avanguardia dell'intera Spagna.

Ma non potendo disporre del portafoglio, alla politica catalana non restava che "pompare" il tema culturale per legittimare la propria peculiarità e differenza. In fondo non conveniva neppure agli autonomisti "duri e puri" mordere la mano che comunque alimentava la protezione, la riscoperta, la diffusione e, anche, la "ricostruzione" dell'identità catalana.

Ciò che ha alimentato la dimensione identitaria dell'autonomismo catalano, fino a trasformarlo in un indipendentismo/nazionalismo intrattabile, è stata la negazione della sovranità fiscale.

È questo che rende così interessante e ricco di "moniti esportabili" il caso della Catalogna, nonostante il fatto che dal punto di vista culturale la Catalogna rappresenti un unicum in Europa.

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Oriol Junqueras, presidente di Esquerra Republicana de Catalunya, stringe la mano a un poliziotto catalano, 1 ottobre 2017 (EFE/Alejandro Garcia)

SOLIDARIETÀ TERRITORIALE

La seconda lezione che possiamo trarre dalla vicenda catalana è che la crisi economica, unita al rigorismo fiscale imposto dall'Unione Europea, ha prodotto la svalutazione della solidarietà territoriale.

Da un lato, le difficoltà dei Paesi devastati dalle conseguenze sociali dell'economia globalizzata sono state trattate dall'Unione con freddo distacco. Dall'altro, la persistenza delle sovranità, con l'ovvia prevalenza dei cicli politici ed elettorali nazionali che ne discende, ha mandato in crisi la questione dei trasferimenti di risorse tra aree disomogenee, allo scopo di favorirne la progressiva convergenza.

In altri termini, mentre la cittadinanza europea veniva a declassare oggettivamente la cittadinanza nazionale, contemporaneamente negava che l'appartenere alla medesima casa politica europea implicasse una solidarietà attiva e concreta tra le diverse aree dell'Unione.

La conseguenza di questo era la messa in discussione che anche il patto di cittadinanza nazionale, per così dire, implicasse necessariamente la solidarietà tra le diverse regioni di un Paese. Sono le ex "regioni ricche" che oggi chiedono di separare il proprio destino dal resto della nazione, applicando la lezione dell'egoismo comunitario imparatoa proprie spese sulla propria pelle.

ANDARSENE SE LO STATO NON PUÒ ESSERE RIFORMATO

La terza "lesson learned" dal disastro spagnolo è che, quando le speranze di riformare lo Stato falliscono, non resta che andarsene.

È il sempre valido schema Exit/Voice/Loyalty teorizzato decenni orsono dal Nobel per l'economia Albert Hirschmann. Se le cose non vanno e i tentativi di far sentire la mia voce per cambiarle falliscono, la mia lealtà va a farsi benedire e non mi resta che andarmene.

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La polizia spagnola interviene contro il voto del referendum di indipendenza catalana, Girona, 1 ottobre 2017 (EPA/Andreu Dalmau)

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E una volta che il sentimento dominante è quello, invertirlo diventa molto difficile. Se applicato al caso italiano, le vele dei prossimi referendum di Veneto e Lombardia sono gonfiate dal fallimento del processo riformatore dello Stato in termini di gestione responsabile delle risorse e di autonomia fiscale.

A fronte della continua mortificazione della buona amministrazione delle regioni "virtuose" che il cosiddetto patto di stabilità esalta, sta l'impotenza o la connivenza del governo di Roma di fronte alla cattiva amministrazione delle regioni "viziose" dal punto di vista amministrativo.

E le imminenti elezioni siciliane, con il solito scandaloso giro di regalie che si sommano a una gestione criminale delle risorse fiscali trasferite dal centro che non fa neppure più notizia, offrono più di un argomento ai referendari padani. C'è infine un ultimo monito da trarre da quanto sta avvenendo a Barcellona. Gli ordinamenti costituzionali quasi mai prevedono la possibilità di una secessione legale di parte del territorio.

Ciò non toglie che eventi simili, quando si presentano, debbano essere gestiti politicamente (come è stato il caso del fallito referendum scozzese sull'indipendenza o quello della riuscita divisione della Cecoslovacchia in due entità statali distinte). Opporre la forza alle ragioni della protesta nel nome della legalità serve solo a esacerbare gli animi e polarizzare le posizioni.

La rigidità ostentata dal governo di Madrid è l'ennesima manifestazione dell'inflessibilità ottusa con cui l'autorità centrale ha gestito la "provocazione" referendaria della Generalitat in questo decennio. Ed è principalmente sua la responsabilità di aver spinto i due soggetti politici sulla via di un braccio di ferro che, comunque vadano le cose, vedrà tutti sconfitti.

Questo articolo è stato pubblicato su "Panorama" del 28 settembre 2017 con il titolo "Lezioni catalane".

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Vittorio Emanuele Parsi

Professore ordinario di Relazioni Internazionali all'Università Cattolica di Milano

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