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Renzi come D'Alema: gli unici a dimettersi dopo una sconfitta

Non era quasi mai capitato che un premier si dimettesse dopo una sconfitta. Il precedente? Nel 2000, quando il capo del governo era l'arcinemico Max

“Ho perso io, volevo tagliare le poltrone del Senato, delle Province, del Cnel, è saltata la mia. Come era evidente e scontato dal primo giorno, la mia esperienza finisce qui, volevamo vincere e non partecipare”. Queste sono state le prime parole di un provato e commosso Matteo Renzi un’ora dopo la chiusura dei seggi e con la valanga di No che si era rovesciata sulla sua testa, in maniera a dir poco inattesa per la sua proporzione.

Conoscendo il personaggio, le sue dimissioni erano più che prevedibili, potremmo dire scontate. Detto questo, in settant’anni di Storia Repubblicana non è capitato tante altre volte di assistere alle dimissioni di un Presidente del Consiglio come diretta conseguenza di una sconfitta elettorale, anzi. L’Italia, soprattutto negli anni della Prima Repubblica, era abituata ai tradizionali rimpasti di ogni sorta, mandati bis, ter e con politici che uscivano dalla porta per poi rientrare dalla finestra. C’erano i governi balneari, i monocolore e altro ancora.

Referendum: vince il No, perde Renzi


Nel lontano 1953 a essere colpito dal giudizio universale degli elettori fu, addirittura, Alcide De Gasperi, in quella che poi divenne la sua ultima esperienza governativa. Si votava per la seconda Legislatura e per la prima volta veniva utilizzata la nuova legge elettorale approvata la Domenica delle Palme e passata poi alla Storia come Legge Truffa. Il 7 e 8 giugno, gli italiani decisero che quel sistema elettorale, sostenuto a spada tratta dallo stesso De Gasperi, non era quello migliore per rappresentare il popolo. La Dc e i partiti alleati non sfondarono la soglia del 50% per poter usufruire del premio di maggioranza.

Il Capo dello Stato, Luigi Einaudi, in quel caso, affidò per prassi l’incarico per la formazione del governo allo stesso De Gasperi, ma l’esperienza fallì miseramente in quanto il suo esecutivo durò appena quindici giorni, dal 16 luglio al 2 agosto. De Gasperi rimase segretario della Dc.

In questi giorni si è citato più volte il precedente di un altro toscano, Amintore Fanfani, il grande sconfitto del Referendum sul Divorzio. In quella circostanza, l’aretino non era Capo del Governo ma Segretario della Dc e rifiutò ogni responsabilità esclusiva di quella consultazione “sia di aver voluto il Referendum, sia di averlo fatto degenerare”.

Tuttavia, un dejavù esiste e, paradossalmente, il precedente più illustre, l’unico in questo caso, di dimissioni di un Presidente del Consiglio come conseguenza di una sconfitta elettorale, riguarda Massimo D’Alema, proprio lui, l’acerrimo nemico di Matteo Renzi.

Eravamo nell’aprile del 2000 e D’Alema, teso in volto, comunicava ai giornalisti pervenuti al Quirinale “Ho ritenuto giusto, per un atto di sensibilità politica, e non certo per dovere istituzionale…” di rimettere il mandato nelle mani del Capo dello Stato Carlo Azegio Ciampi.

In quel caso si trattava di elezioni regionali e D’Alema aveva deciso di utilizzarle come banco di prova per il suo governo e, soprattutto, per la leadership all’interno di un lacerato centrosinistra, “ho ritenuto giusto prendere atto che la conclusione del duro confronto politico per le elezioni regionali ha visto il successo di una opposizione che aveva chiesto fin dall’inizio le dimissioni del governo”.

In quei giorni si viveva un’altra battaglia, sempre all’interno del centrosinistra. Da una parte D’Alema, appunto, e dall’altra Walter Veltroni, segretario dei Ds e altro nemico. C’è da dire che, in quella circostanza, la sconfitta non fu così netta. Il centrodestra si aggiudicò otto regioni e il centrosinistra sette. Tuttavia, quel risultato non servì a un orgoglioso D’Alema, caratteristica che lo accomuna proprio allo stesso Renzi, di impedirgli di dimettersi.

Onore delle armi a Renzi, ma è inutile continuare a ripeterlo e la Storia lo insegna, a sconfiggere la sinistra sarà sempre e soltanto la sinistra.

 

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Sabino Labia

Laureato in Lettere all'Università "Aldo Moro" di Bari, specializzazione in "Storia del '900 europeo". Ho scritto tre libri. Con "Tumulti in Aula. Il Presidente sospende la seduta" ho raccontato la storia politica italiana attraverso le risse di Camera e Senato; con "Onorevoli. Le origini della Casta" ho dato una genesi ai privilegi dei politici. Da ultimo è arrivato "La scelta del Presidente. Cronache e retroscena dell'elezione del Capo dello Stato da De Nicola a Napolitano" un'indagine sugli intrighi dietro ogni elezione presidenziale

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