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(Ansa)
Politica

Costabile: «L’influenza dei voti dei leader familistici sui risultati elettorali»

Le vicende in Puglia e Basilicata hanno portato alla luce alcune situazioni tipiche della politica al sud. Che fanno del male a tutto e a tutti

Stretto vincolo tra elettori e candidati, vicinanza al focus del voto, rapporti personali tra candidati ed elettori: le elezioni locali (regionali e comunali, un tempo anche le provinciali), si reggono da sempre sulle relazioni tipiche del localismo politico, sovente ammantato di familismo e clientelismo e collegato a personalità autorevoli capaci di orientare le scelte di gruppi e partiti e di condizionare i risultati elettorali.

Come sottolinea Antonio Costabile, sociologo della politica dell’Università della Calabria -tra i principali studiosi del sistema politico meridionale- «nella carenza di una forte e diffusa struttura economico-produttiva, nonché nella debolezza dell’articolazione sociale e delle culture politiche di carattere universalistico a tale struttura collegate, nel Mezzogiorno i processi di trasformazione vengono acquisiti e mediati, a livello locale, attraverso l’intervento politico e l’azione dei sistemi di tipo particolaristico, come le relazioni familiari-parentali e quelle clientelari».

Professor Costabile, quindi ci conferma che ad ogni tornata elettorale, nelle regioni meridionali, emergono caratteristiche del tutto tipiche di queste aree geografiche.

«Il nodo non sciolto, ad oltre 160 anni dall’unificazione del paese, consiste nella incapacità delle classi dirigenti nazionali e meridionali di promuovere nel Sud l’autonomia produttiva e non solo lo sviluppo generato dalla spesa pubblica mediante l’espansione del settore terziario, cioè di intervenire sulla debolezza produttiva delle regioni meridionali, che le rende economicamente subordinate al resto del paese e politicamente dipendenti dalla redistribuzione politica delle risorse».

In proposito, è opportuno richiamare l’insegnamento di Max Weber e il suo riferimento al “vivere di politica”:

«Scriveva: “Della” politica come professione vive colui il quale aspira a farne una fonte di introito durevole; “per” la politica vive colui per il quale ciò non avviene”. E quest’ultimo soggetto quindi “deve essere in condizioni normali, economicamente indipendente dagli introiti che la politica gli può procurare”».

Il sociologo tedesco è mirabilmente attuale dopo oltre un secolo!

«La categoria “vivere di politica”, intesa come dipendenza dalla politica per il proprio sostentamento, può essere applicata non più solo a specifici soggetti, i professionisti della politica, e neppure soltanto a determinate categorie sociali, ma ad intere società regionali, al cui interno la maggioranza della popolazione, in conseguenza di un particolare processo chiamato “modernizzazione senza industrializzazione”, si trova a fare della politica l’unica o la principale fonte di introito e orienta, di conseguenza, una parte decisiva delle proprie azioni e relazioni quotidiane».

E’ evidente che ciò crei, per l’appunto, una anomala socializzazione politica. Questo tema pare essere una costante, allora?

«Purtroppo questo rapporto distorto con la politica è divenuto nel tempo un elemento pervasivo non solo in Calabria ma pure in molte altre aree del Sud, nelle quali “vivere di politica” implica per tanti la costruzione sociale e culturale della dipendenza e il mantenimento, anziché il superamento di quest’ultima. Essa diventa un orizzonte culturale e finanche morale, in quanto la subcultura della dipendenza funziona non solo per rivendicare risorse unicamente a fini assistenziali (piuttosto che anche di autentico sviluppo), ma altresì per giustificare l’utilizzazione strategica delle emergenze».

I tagli lineari alla spesa pubblica nelle regioni meridionali, realizzati dai governi nazionali nel Sud post crisi del 2008, questa situazione l’hanno ulteriormente aggravata…

«Esasperando le condizioni di bisogno e favorendo la moltiplicazione dei politici più spregiudicati e meno responsabili, che si presentano come affidabili professionisti della dipendenza. Si tratta di una categoria di politici che sembrano applicare all’esercizio del proprio mandato, in questa epoca di crisi ripetute, un principio economico assai discutibile: “socializzare le perdite e privatizzare i guadagni”.

Ci faccia qualche esempio di questa situazione

«Senza nulla togliere alle molte energie sane presenti anche nel Mezzogiorno, in tutti gli ambienti sociali, uomini, donne, giovani che percorrono con determinazione e creatività cammini di autonomia nel campo del lavoro, delle buone pratiche amministrative, dell’associazionismo, della cultura e dell’università ecc., ma che finora risultano complessivamente minoritarie, è indubbio che le statistiche e i dati oggettivi, come pure le inchieste giudiziarie e giornalistiche e il malgoverno delle istituzioni, offrono, in merito, innumerevoli testimonianze».

E’ agevole analizzare la dipendenza dalla politica nei diversi campi della società e nei diversi settori che compongono il mondo del lavoro e quello delle professioni. «Su tutte, sicuramente, la sanità e le professioni mediche, che oltre a costituire la voce più cospicua e onerosa dei bilanci regionali, a vario titolo risultano promosse o controllate o favorite dalla politica (o commissariate, dalla politica nazionale o da quella regionale). Ad esempio, non solo gli ospedali pubblici ma pure le cliniche private convenzionate si reggono sui finanziamenti pubblici e sono oggetto di una incessante lotta per il potere, mentre il reclutamento nei ruoli sanitari pubblici e la carriera sono solitamente lottizzati».

La lista delle professioni “dipendenti dalla politica” non si esaurisce certo alla sanità…

«L’area della pubblica amministrazione è un ulteriore e chiaro esempio di tale dipendenza dalle scelte politiche, ma pure settori come l’edilizia e l’ingegneria, l’avvocatura e le professioni legali e quelle legate alla comunicazione, allo spettacolo, allo sport, ai servizi sociali sono, a vario titolo e in diversa misura, senz’altro permeabili al potere della politica. Hanno continuamente bisogno, per appalti, commesse, concorsi, commissioni, nomine, progetti, interventi normativi e finanziari, carriere, dell’intervento della politica».

Non si tratta di criminalizzare la politica né di colpevolizzare la popolazione in generale, ma non si può neanche nascondere un enorme disfunzione democratica…

«Che si realizza quando il candidato politico non si presenta come promotore di progetti di buongoverno, in base ai quali chiede voti per il benessere personale dell’elettore e per la crescita collettiva, bensì quando quel candidato ( e con lui i suoi competitori) si presenta e viene scelto come un datore di lavoro privato, che promette e si mostra capace di utilizzare le sue future prerogative pubbliche per garantire occupazione e benefici economici, di varia natura e non di rado extralegali, al suo elettore, dai campi lavorativi e dagli interessi più tradizionali a quelli più innovativi».

E’ a questo punto che si manifesta appieno lo stravolgimento delle regole dello stato di diritto e democratico

«Purtroppo, allorchè il bene pubblico viene visto e utilizzato come una proprietà privata dell’eletto e il cittadino si adatta a questa situazione anomala rendendola normale, cercando, a sua volta, di trarne il maggiore profitto privato attraverso uno scambio elettorale reciprocamente utilitaristico e gravemente dannoso per la collettività, esclusa dalla spartizione e attratta in maniera crescente dal partito del non voto».

Un quadro sconfortante, anche per una imponente “politicizzazione delle appartenenze”, come si usa dire in questi casi…

«Da lungo tempo intere generazioni delle classi dirigenti meridionali, fondate sull’alleanza tra amministratori locali, professionisti, burocrati, speculatori e imprenditori, e sulle loro entrature nei centri decisionali superiori (europeo, nazionale, regionale), hanno praticato e praticano la strategia della politicizzazione delle appartenenze primarie, sia per le loro radici culturali che per precisi interessi economici e sociali. E queste appartenenze sono classificabili principalmente tre gruppi: quella familiare e parentale, quella cetuale-professionale e quella partitica (non di rado convergenti tra di loro)».

Ci stiamo avvicinando al tema della nostra conversazione…

«Negli ultimi decenni lo scontro politico si è concentrato di nuovo (come avveniva tra fine Ottocento e il fascismo, ma allora in assenza del suffragio universale) e sempre di più sulla competizione tra reti familiari (e clientelari), per lo più trasversali agli schieramenti politici, espressione dei ceti superiori e di quelli popolari, ed è in riferimento a questi circuiti particolaristici che si aggregano e disaggregano le associazioni, i partiti, i gruppi di interesse. Qui, poi, contano il possesso di risorse (del gruppo o personali) che fanno la differenza nelle fortune politiche dei diversi leader e delle diverse famiglie e gruppi politici».

Familismo fa quindi rima con clientelismo…

«Al Sud, purtroppo, il clientelismo politico fa parte del paesaggio socio-politico. Con il termine clientela ci riferiamo a quella specifica relazione sociale nella quale i soggetti -patrono e cliente- hanno ruoli e posizioni sociali differenti, scambiano tra di loro favori e servigi di varia natura e contenuto, interagiscono sulla base di una combinazione di motivi di interessi materiali e di appartenenza. Dopo la caduta delle ideologie collettive e dei loro partiti e in una società sempre più individualistica, conflittuale e insicura, l’elemento del legame amicale e politico tra elettore e patrono tende a scemare e sparire e resta soltanto l’elemento utilitaristico, nel cliente-elettore divenuto perciò molto “volubile” nelle sue scelte, così come nel patrono politico, divenuto anch’egli ondivago tra partiti e schieramenti».

Dalle fasi di transizione e di disordine sono emersi spesso individui politicamente carismatici, capaci di aggregare attorno a sé seguito e consenso.

«Il carisma personale ha costituito più volte in passato, nelle regioni meridionali, l’unica soluzione pacifica possibile di fronte alle fratture strutturali, sociali, cognitive, tra tradizione e modernità altrimenti insanabili. Stiamo parlando di realtà sociali che avevano bisogno di individui carismatici, capaci di svolgere una funzione sostitutiva rispetto ai carenti processi di emancipazione strutturale dell’economia e della politica».

Nelle regioni del Sud la penetrazione dei partiti politici di massa è stata favorita da questo tipo di leader.

«In grado di collegare con il prestigio, la credibilità e il radicamento della propria figura e della propria vicenda, personale e familiare, il nuovo che avanzava dall’esterno con il vecchio mondo locale ormai al tramonto, creando un canale tra particolarismo e universalismo. Più volte le catene familiari in politica sono nate da queste figure, che, anche nei casi più virtuosi, erano tuttavia figlie del loro tempo e non sono state in grado, al di là di questa funzione di mediazione, di promuovere lo sviluppo autonomo del Sud, quando, al contrario non sono stati fautori della dipendenza di cui abbiamo parlato».

Ancora leader familistici?

«In ogni caso oggi, nella società degli individui, globale e digitale, questo tipo di personaggio politico è anacronistico, mancano i prerequisiti collettivi sia al personale politico attuale che all’elettore dei nostri giorni, e così finiamo involontariamente tutti quanti con il confondere la popolarità mediatica con l’autentico carisma».

Capita sempre più spesso che questi leader politici, familistici e carismatici, riescano da soli a spostare l’esito di intere elezioni, dai comuni alle regioni…

«E’ successo di recente nelle elezioni regionali in Basilicata e potrebbe succedere in futuro. Può sembrare incredibile all’osservatore disattento, eppure il crescente astensionismo, prodotto anche dalla degenerazione particolaristica e personalistica della vita politica, in cui sono direttamente coinvolti proprio i fenomeni di familismo e clientelismo di cui abbiamo parlato, finisce per premiare nell’esito elettorale, quando il corpo complessivo degli elettori si riduce alla metà o addirittura meno (come in molte recenti tornate elettorali regionali), il ruolo di chi è capace di controllare una quota significativa dei consensi espressi da coloro, sempre meno, che ancora si recano alle urne (e in questo caso per sostenere il modello familistico-clientelare)».

Un circolo vizioso, in pratica

«Che consiste nel fatto che, in questo modo, i produttori della sfiducia politica, che spinge tanti cittadini a protestare non recandosi nella cabina elettorale, possono diventare beneficiari di tale discredito e tradurlo in potere e cariche di governo, a condizione che conservino l’influenza su una quota di elettorato magari ridotta, eppure decisiva in questo tempo di urne vuote».

Professore, sia sincero: così il Sud non va da nessuna parte!

«Personalmente non sono pessimista e continuo a pensare che solo l’onesto riconoscimento dei problemi, in tutta la loro gravità e senza infingimenti di comodo, può stimolare la reazione positiva del paese, che dovrà a sua volta tradursi nell’individuazione dei percorsi necessari per risolvere la crisi che attraversiamo. Da studioso, proverei a rovesciare la sua domanda: siamo sicuri che oggi è soltanto il Sud a rischiare di entrare in un vicolo cieco, oppure l’astensionismo, oltre certi livelli, mostra l’aggravamento della crisi della democrazia nell’intero Occidente, perché contraddice il presupposto di questo regime politico, in nome del quale si continua a combattere e morire in tante guerre in corso nel mondo, cioè la sovranità popolare? ».

Un popolo che in un regime democratico vota per la metà, o addirittura meno, esprime una patologia politica gravissima.

«Aggravata dai suoi effetti deflagranti, ma che risulta tuttora ignorata, sottovalutata o addirittura, come spiegavamo sopra, utilizzata da molti personaggi e organizzazioni politiche per il proprio tornaconto. E’ un problema ripetutamente segnalato, ben oltre i casi eclatanti che restano tutto sommato circoscritti, per cui il popolo meridionale, italiano e occidentale e i suoi rappresentanti ed anche gli intellettuali, accademici e non, devono scegliere se preferiscono continuare a guardare il dito o alzare lo sguardo verso la luna».

*

Antonio Costabile, cosentino, classe 1953, già ordinario di Sociologia dei fenomeni politici presso il Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università della Calabria, si occupa principalmente dei caratteri del potere politico, delle relazioni tra politica e comunità, della modernizzazione sociale
e politica nel Mezzogiorno d’Italia. Nel 2009 ha dato alle stampe una della più importanti ricerche sul sistema politico meridionale (Legalità, manipolazione, democrazia, Carocci, Roma), in cui, tra l’altro, si evidenzia il tema del clientelismo politico e dei c.d. “capi carismatici”. Tra le altre sue pubblicazioni occorre ricordare Il potere politico (Carocci, 2002); (con P. Fantozzi), Legalità in crisi (Carocci, 2012); (con M. Pendenza), Max Weber. Teorie sociologiche e politica (Franco Angeli, 2021).

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Egidio Lorito