Piccolo, grande Papa
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Piccolo, grande Papa

Benedetto XVI che ha mosso guerra al relativismo culturale e morale fa il gesto, rivoluzionario, di relativizzare se stesso come persona per dare alla Chiesa un vertice nel pieno della forza - lo Speciale sul Papa -

Joseph Ratzinger è un uomo piccolo di statura e di complessione, un grande Papa piccolo. Qualche anno fa visitava da buon vescovo la parrocchia del mio quartiere, il Testaccio di Roma: incedeva nella navata centrale di una brutta, ma simpatica costruzione salesiana, fu benevolo nell’avvistarmi, si fermò e si lasciò salutare con deferenza, in mezzo a parole di simpatia, da mia moglie e da me.

Tutto qui, a parte un paio di dediche su libri da lui scritti e presentati da noi corifei davanti a molti pubblici diversi, sempre con scalpitante entusiasmo intellettuale. La passione per un Papa non è un fatto personale, naturalmente, dipende dalle sue idee e dal suo comportamento nello spazio pubblico, specie per chi non rifiuti la suggestione del sacro ma sia fin da ragazzo privo di una fede cattolica professata e vissuta. Per i romani, poi, il Papa è da sempre un vicino di casa.

Ratzinger ha sempre considerato ripugnante quel che nel mondo contemporaneo sterminate maggioranze giudicano «corretto». Sarebbe bello se a ciascuno fosse data una via di salvezza individuale o se ogni fede disponesse di una scala per il cielo, una mediazione di salvezza particolare. Ma non può essere così per la religione cristiana e per la civiltà che su di essa si appoggia, ha ricordato con una istruzione dogmatica intitolata Dominus Jesus, pubblicata dalla sua Congregazione per la dottrina della fede nel 2000, anno fatale e giubilare di ingresso del mondo nel Terzo millennio. Mi sembrò subito evidente, all’epoca, che quel documento andava pubblicato integralmente perché era lo sviluppo di una ragione e di una logica, prima che di una fede e della sua legittima dogmatica: se credo in un figlio di Dio morto e risorto per emendarmi dai peccati e portare il Regno in terra, ciò mi basta e mi avanza, e ogni altro credo eccede il mio. E così è per tutto: se concepisco, devo generare con buonumore. Se mi sposo, ci sono un lui e una lei. Il mondo secolare cerca nei cristiani e nei cattolici il capro espiatorio, e questo è scritto nella storia e nella politica contemporanee: i cattolici hanno il dovere di contrastare il progetto del loro annichilimento, e possono farlo parlando di diritto e politica, di sorgenti dell’autorità, di musica e di bellezza, di umanità e di Creato, sempre rivendicando la loro testimonianza come un pegno che vale anche per la vita pubblica.

Il ratzingerismo è un realismo, è un razionalismo, un umanesimo moderno, un illuminismo cristiano immerso nella fede, nel divino, senza mai perdere l’ancoraggio della riflessione filosofica e teologica sui principi primi e ultimi, senza mai disconnettersi sia dall’opera collettiva e corporea che è la vita della Chiesa, con la sua liturgia, sia dalla responsabilità della coscienza individuale, soggettiva, in dialogo con Dio che funge da suggeritore e parla dalla sua misteriosa buca di proscenio.

Hanno infine notato, menti che si attardano nelle convenzioni più banali, che solo un conservatore poteva compiere un gesto tanto moderno e rivoluzionario, come il laico mettersi da parte in favore di una nuova e possente energia da eleggere alla guida della Chiesa, un ritiro di studio e di preghiera come premessa di un rilancio, di un irrobustimento dell’apostolato. In effetti l’abdicazione o rinuncia o dimissione è un paradossale raddoppio che induce il Papa della guerra al relativismo culturale e morale al gesto di relativizzare se stesso come persona per offrire al mondo lo spettacolo di una Chiesa con un solo pontefice nel massimo della sua forza, e però, dal 28 febbraio di questo 2013, con due papi addirittura, uno regnante e uno emerito, nella piena continuità. Lo storico Jacques Le Goff ha visto il dettaglio con occhio di falco: il gesto è moderno, il contenuto è antico, e finalmente si può citare Il Gattopardo per dire qualcosa di significativo, che si cambia tutto per non cambiare nulla.

Mi sono domandato su che cosa avrebbe puntato Giuseppe Gioacchino Belli a commentare l’incommentabile, l’inaudito, lui testimone poetico della Chiesa che considerava un delirio la libertà di coscienza dei moderni (Gregorio XVI) e twittava la sua nulla considerazione per gli errori dei nazionalismi e delle democrazie liberali che nell’Ottocento volevano conquistare e svellere la sposa di Cristo (il Sillabo di Pio IX, decine di brevi proposizioni di 140 caratteri, più o meno, destinate a fermare il tempo, un progetto sempre molto interessante). Avrebbe spiegato con parole dolcemente licenziose, e sboccate pur nell’intarsio prezioso, che con queste dimissioni non ci capiva niente tranne che era cosa ben fatta.

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Giuliano Ferrara