Perché Tsipras non fa così paura
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Perché Tsipras non fa così paura

Di fronte elle elezioni in Grecia e in Gran Bretagna c'è chi teme, sbagliando, un crollo delle istituzioni europee

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“Syriza non vuole il crollo, ma la salvezza dell’Euro. È impossibile salvare l’Euro quando il debito pubblico è fuori controllo. Ma il debito è un problema europeo, non solo greco e l’Europa deve accollarsi il compito di cercare una soluzione sostenibile”. Sono le lucide e ragionate parole di Alexi Tsipras, leader della sinistra radicale greca e presidente del partito Syriza, con una forte ipoteca sul prossimo governo ellenico che vedrà la luce dopo le imminenti elezioni del 25 gennaio.

 Molto si è detto del timore che una vittoria del giovane partito – Syriza si è costituito nel 2004 ma è un partito a tutti gli effetti solo dal 2013 – possa sconvolgere l’ordine sociale, economico e politico dell’Europa, magari traghettando Atene fuori dalla moneta unica. Le stesse borse hanno avvertito il pericolo e patito una serie di crolli (non solo per tali ragioni) che non fanno ben sperare circa la stabilità del Vecchio Continente.

 Ciò nonostante, non tutto quel che appare potenzialmente disastroso è davvero così negativo per la stessa Europa. La ricetta dell’austerity, che la Germania ha imposto agli Stati più deboli dell’area Euro, non solo è antitetica a quella che promette il candidato forte della Grecia, ma notoriamente ha già dimostrato di non funzionare. Ragion per cui oggi in tutta Europa il dibattito sulla crescita è il sale quotidiano di cui si alimenta la dialettica politica interna all’Unione. Non è un mistero, tanto per fare un esempio, che l’abbandono dell’austerity per una nuova formula finalizzata alla crescita sia anche la linea dell’Italia di Renzi e della Francia di Hollande, ovvero i due principali governi di centrosinistra dell’Europa che conta.

 

Dentro o fuori l’Unione?
Allora, fuori dal gioco a rincorrere le paure che sinora hanno bloccato ogni visione del futuro per i Paesi che costituiscono l’UE, dobbiamo ammettere che il ragionamento di Tsipras e una sua eventuale vittoria elettorale potrebbero costituire un segnale anche positivo. Non nel senso partigiano della vittoria di un colore politico, ma nel senso di una politica che incarni “l’aspettativa di un mutamento di rotta per l’intera Europa, che non uscirà dalla crisi senza una profonda revisione delle sue scelte politiche” come afferma lo stesso candidato presidente.

 Dunque, l’eventuale vittoria di Syriza non sarebbe diretta contro l’Unione Europea. Infatti, “se andremo al governo l’ipotesi di un nostro addio all’Eurozona è assolutamente pari a zero” ha tenuto a sottolineare più volte il braccio destro di Tsipras, Dimitrios Papadimoulis.

 Inoltre, va sottolineato che l’articolo 140 del Trattato dell’Unione Europea, al paragrafo 3 prevede che per uscire dall’Euro è necessaria una modifica del Trattato stesso, la cui procedura dev’essere sottoposta a tutti i Paesi membri, che la devono approvare all’unanimità in Parlamento e ratificare, ove previsto, anche nei parlamenti nazionali. Una procedura un po’ lunga e assai costosa.

 Infine, si aggiunga che gli ultimi sondaggi danno Syriza avanti con il 30,4% contro il 27,3% di Nea Dimokratia del premier Antonis Samaras, mentre al terzo posto si piazzerebbe il Partito Comunista di Grecia (Kke) con il 4,8%. Dunque, Tsipras ha un vantaggio di soli tre punti percentuali su Samaras, un po’ troppo pochi per annunciare una vittoria schiacciante. Il tanto temuto partito filo-nazista Alba Dorata, per dire, è dato appena al 3,8%.

 Non solo, secondo gli stessi sondaggisti, il 74,2% della popolazione greca preferirebbe restare nell’Euro. Il che significa che questi allarmi e queste paure vanno anzitutto ridimensionate e che, anche con la vittoria di Tsipras, il nuovo governo dovrebbe scendere a patti con gli altri partiti e forse creare una coalizione allargata con gli altri partiti nazionali, al fine di dare vita a un governo forte per traghettare il Paese fuori dal baratro. Per fare un paragone ardito, agli occhi di un americano o di un cinese medio questa situazione non sembra poi tanto diversa da quella italiana.

 

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Perché tanta paura?
Allora, perché tanta paura? Forse, si dirà, è colpa – ancora una volta – di Angela Merkel e del suo austero governo tedesco che pretende che vengano rispettati i terribili parametri economici stabiliti in seno all’UE. Vero, ma solo in parte.

 Il centro e il centrodestra europei, che trovano i principali punti di riferimento nella Germania di Angela Merkel e nel Regno Unito di David Cameron, sono naturalmente portati a divergere dalle politiche di centrosinistra, come in ogni naturale competizione e contrapposizione politica.

 Per questi due governi, il 2015 è iniziato con un importante incontro in terra inglese tra Merkel e Cameron, proprio per discutere del futuro dell’Europa. Il premier britannico, alle prese con una difficile situazione politica pur in un contesto di ripresa economica, dopo aver superato indenne il referendum scozzese sulla separazione di Edimburgo dal resto dell’Inghilterra, ha deciso di rilanciare in vista delle elezioni politiche di maggio 2015. Cameron ha infatti messo sul tavolo la rinegoziazione del trattato dell’Unione, con la minaccia di un referendum nel Regno Unito che lasci decidere ai cittadini di Sua Maestà se restare o meno dentro l’Unione.

 

Lo scopo? Ottenere vantaggi immediati per Londra e per il suo centrodestra, in calo vertiginoso di consensi. Ovvio che Angela Merkel vede l’iniziativa del premier britannico come il fumo negli occhi. Scrive il Telegraph in proposito: “Vi sono ragioni pratiche per cui la signora Merkel è riluttante ad aprire il vaso di Pandora che è la rinegoziazione del Trattato. In particolare, mentre il signor Cameron vede la rinegoziazione come un mezzo per ottenere un risultato positivo del referendum dentro o fuori per restare nell’UE che ha promesso entro il 2017, la signora Merkel teme che una tale mossa porterebbe a nuovi referendum altrove in Europa, che potrebbero avere risultati imprevedibili. E l’instabilità è un anatema per un cancelliere che prende sul serio il suo ruolo di leader d’Europa”.

 Indicando nel 2017 la data del referendum, Cameron sottintende che se lui sarà ancora al governo gli inglesi potranno scegliere, mentre se lui non ci sarà più l’UE imporrà nuovi diktat a un Paese notoriamente tra i più insofferenti alle imposizioni di Bruxelles. Così facendo, spera di allontanare gli elettori di destra e gli indecisi dalle sirene dell’UKIP di Nigel Farage, il partito anti-Europa per eccellenza che cresce nei sondaggi e rischia di mettere all’angolo i Tories.

 Dall’Europa non si prescinde
Insomma, la partita politica che si gioca in questi mesi in Europa appare chiara ai suoi protagonisti: per vincere le elezioni nazionali, i leader politici hanno capito che bisogna prima vincere a Bruxelles e ottenere risultati soddisfacenti nel contesto continentale. Una tattica che da Atene a Londra tutti si stanno attrezzando per adottare, forse perché paradossalmente hanno compreso che, come dice ancora Angela Merkel, dall’Unione Europea non si prescinde.

 


@luciotirinnanzi

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Luciano Tirinnanzi