Perché il governo Renzi dice no a un asse franco-tedesco
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Perché il governo Renzi dice no a un asse franco-tedesco

Dallo sforamento dei parametri all'eventuale sospensione di Schengen: le ragioni del braccio di ferro tra Ue e Italia nel giorno del vertice Ue

Per Lookout news

Non ha usato giri di parole, Matteo Renzi, nell'intervista concessa  a un noto newsmagazine tedesco alla vigilia del vertice dell'Unione convocato per dipanare le materie più spinose del futuro europeo, dalle politiche di austerity fino all'eventuale sospensione temporanea del trattato di Schengen, o meglio la l’attivazione dell’articolo 26 che consentirebbe a uno o più Stati membri di estendere i controlli alle frontiere interne, fino a due anni «per far fronte a una situazione in cui esistano deficit seri e ricorrenti nei controlli lungo le frontiere esterne e le misure previste da Schengen non risultano efficaci». 

Il messaggio è arrivato forte e chiaro: «No a un Europa franco-tedesca». «Se per esempio - ha spiegato il premier - si cerca una strategia complessiva per la soluzione dei profughi, non può bastare se Angela prima chiama Hollande e poi chiama il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, e io apprendo del risultato sulla stampa».

Il messaggio del premier giunge all'insomani di un serio braccio di ferro tra l'Italia e i vertici dell'Unione. A cominciare dalle politiche di stabilità e dal salvataggio delle banche italiane, sulle quali occorre fare chiarezza.  Perché, per esempio, il rapporto sulla sostenibilità fiscale (Fiscal Sustainability Report) dell’Ufficio analisi dei bilanci della Commissione Europea è stato rilanciato il 25 gennaio con ampio risalto dai tecnocrati di Bruxelles e campeggia sulle prime pagine dei media italiani? Qual è stato il suo effetto sui mercati finanziari mondiali?

 Il contenuto di questo rapporto era ben noto, nei suoi contenuti fondamentali, ed è stato ampiamente commentato da tutti i quotidiani a partire dal Financial Times del 17 novembre scorso, allorché la Commissione ha iniziato a lanciare moniti contro la decisione del governo italiano di portare il rapporto deficit pubblico/PIL al 2,6%. La variazione di bilancio concordata per l’applicazione delle clausole di flessibilità era del 2,4%, rispetto all’1,8% previsto dal piano di rientro concordato con la Commissione. Quindi, il motivo del contendere riguarda lo 0,2% stanziato dal nostro governo per finanziare i provvedimenti urgenti in tema di sicurezza e immigrazione contenuti nella Legge di Stabilità poi approvata dal parlamento a dicembre.

A riprova di ciò basta citare l’andamento dello spread tra i BTP italiani e Bund tedeschi a dieci anni, che è diminuito, dopo la diffusione della notizia, di 2 punti, attestandosi a 108,66. Solo nella mattinata di oggi, martedì 26 gennaio, dopo le notizie del nuovo crollo delle borse asiatiche e l’apertura in negativo delle piazze europee, è risalito a 110, cioè ai valori di ieri mattina.

La sospensione di Schengen e il ruolo della Germania
Questo monito, non proprio fair, avviene mentre indiscrezioni parlano della decisione di sospendere il trattato di Schengen sulla libera circolazione per due anni (attualmente Francia, Danimarca, Austria, Germania, Norvegia e Svezia hanno riattivato i controlli alle frontiere), lasciando così Italia e Grecia sole a fronteggiare la marea di migranti che preme alle frontiere sud dell’Unione Europea. È questa la solidarietà del manifesto di Ventotene e dello spirito dei padri fondatori?

Quindi, come il nostro paese ha sperimentato in altre occasioni, siamo in presenza di un uso politico delle notizie, nemmeno recenti, usate come clave per abbattere chi si oppone a un disegno politico-economico, che in questo caso è la marginalizzazione di un grande paese. Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Finlandia, Grecia e ora Belgio sono costretti a seguire assurdi sentieri di austerità che ne stanno distruggendo la struttura economica profonda delineando un unico vincitore: la Germania e i suoi vassalli.

Il monito del professor Krugman
Come ricorda un giorno sì e l’altro pure il professor Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, dalle colonne del New York Timesmolti economisti e presunti esperti dimenticano la differenza tra tassi di variazione e variazioni assolute”. Infatti, è fisiologico che dopo una drastica caduta del PIL durata anni, magari a due cifre, a causa dell’austerità ci sia una crescita percentuale del PIL, ma questo non vuol dire che le politiche economiche restrittive non stiano ancora deprimendo l’economia. Per esempio, il PIL della Spagna era 1.643 miliardi di dollari nel 2008 e 1.404 miliardi di dollari nel 2014, mentre nel 2015 è stimata una crescita del 3%.

La domanda delle 100 pistole è: la Spagnaquando ritornerà al PIL del 2008 con queste politiche di austerità e in quali condizioni sociali? Come ha recentemente ricordato lo stesso Krugman, l’unico modo per uscire dalla trappola di una depressione a doppio picco, le cosiddetta “recessione W”, è adottare politiche economiche espansive, quello che hanno fatto USA, Regno Unito, Giappone e recentemente la Cina.

Il fallimento delle politiche di austerità
Come spesso accade, la lettura dei dati viene piegata all’ideologia, ovvero si ricorda all’Italia che il debito pubblico eccessivo (133% del PIL) può essere un elemento di criticità nel medio periodo. Il dato strutturale è che il debito pubblico dell’UE a 28 paesi è cresciuto del 30% tra il 2008 e il 2015 raggiungendo l’89% del PIL. Secondo il rapporto nel medio termine, cioè dal 2023, almeno 11 paesi dell’Unione (Belgio, Irlanda, Spagna, Francia, Croazia, Italia, Portogallo, Romania, Slovenia, Finlandia e Regno Unito) hanno una probabilità elevata di avere problemi di sostenibilità del bilancio pubblico per alcuni a causa del suo valore elevato, per altri (Francia e Croazia) a causa della sua crescita percentuale che dovrebbe continuare fino al 2020. Unica eccezione la Germania che sembra non correre rischi anche nel lungo periodo.

 Cosa c’è di nuovo in queste previsioni? Niente, a parte il riscontro del fallimento delle politiche di austerità certificato da Bruxelles. Otto anni di austerità hanno devastato le economie dei maggiori paesi dell’Unione a vantaggio di un unico Stato, la Germania, che invece presenta un avanzo delle partite correnti strutturale che quest’anno ha raggiunto il 7% del PIL (cioè tre volte quello cinese) ottenuto anche cannibalizzando Spagna, Francia e Italia.

 La novità su cui dovrebbero riflettere i commentatori dovrebbe riguardare piuttosto la crisi che si espande come la peste nera a tutta l’UE e non risparmia nessuno, nemmeno i paesi fuori dall’Eurozona. Quindi, l’azione del premier italiano Matteo Renzi, che richiede maggiore flessibilità e maggiori investimenti a cominciare da quelli fantomatici del fondo Juncker, non solo è legittima ma vitale se si vuole invertire la tendenza al declino. Quello che colpisce è ancora l’esitazione di paesi come la Francia che dovrebbero aver ormai compreso che non c’è salvezza senza un asse con l’Italia che spezzi l’egemonia tedesca su Bruxelles e riaffermi la priorità della crescita sull’ideologia del bilancio in pareggio.

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