Boston, an american history
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Boston, an american history

Per Barack Obama la lotta all’uso delle armi non si ferma qui, soprattutto dopo l’attentato alla Maratona

Mentre l’America aspetta le risposte al perché i due giovani bostoniani di origine cecena abbiano compiuto la strage nel giorno del Patriots Day, è il momento d’interrogarsi sulla guerra a bassa intensità che miete più vittime di quante se ne riescano a contare, cioè quella delle armi da fuoco.

Un interrogativo che, per la verità, gli Stati Uniti si erano già posti poche settimane fa, quando il presidente Barack Obama aveva tentato di imprimere una seria svolta alla questione. Ora che, durante la sua ultima presidenza ha finalmente le mani libere dalle lobby che lo finanziano, il primo presidente nero d’America vuole invertire la tendenza degli americani alla “sindrome da far west”, facendo approvare una riforma che limiti l’uso e la diffusione incontrollata di armi.

Come la riforma portata al Senato che, tra l’altro, era piuttosto soft e prevedeva di vietare solo le armi d’assalto, limitare le dimensioni dei caricatori ed estendeva neanche troppo i controlli preventivi per chi le acquista. Ma Obama, come ha ben sottolineato il senatore repubblicano Lindsey Graham, “ha perso tutte e tre le cose”. Come sappiamo, infatti, la legge sul controllo delle armi è stata affossata in seguito alla strage di Boston, con somma irritazione del presidente. Perché?

Le statistiche sulle armi
Obama sa dall’FBI che, solo nel 2011, negli Stati Uniti si sono verificati 12.664 omicidi, di cui 8.583 con armi da fuoco. In una nazione che conta 316 milioni di abitanti, 280 milioni di armi da fuoco e una media di 10,3 morti ogni 100mila individui, non è poco (tanto per fare un paragone, in Italia, dove gli omicidi non sono tra i più numerosi d’Europa, nel 2009 si sono contati 246 morti rispetto ai 9.146 registrati negli Stati Uniti).

Ma, secondo la National Rifle Association, la più grande lobby Usa sulle armi, “l’unica cosa che ferma un cattivo con una pistola è un buono con una pistola”. Ecco perché le aziende del settore riescono ad accrescere i profitti di anno in anno e ben 44 aziende Usa del settore sono tra le prime cento al mondo (236,88 miliardi di dollari di fatturato annuo, oltre il 60% del giro d’affari complessivo del settore mondiale).

Il caso Smith&Wesson è esemplare: nell’ultimo trimestre 2012 l’utile netto è stato pari a 16,4 milioni di dollari, segnando un +48% rispetto allo stesso periodo del 2011. E il titolo in borsa è cresciuto ogni qualvolta negli Usa si è parlato della volontà di Obama di restringere l’acquisto di armi  - della serie, me ne compro un’altra, prima che sia tardi -  e ad ogni notizia di una nuova sparatoria.

Insomma, le armi da fuoco sono un punto nodale. Sono tra le prime cause di morte tra i giovani negli Stati Uniti. Sono uno dei principali motori economici dell’industria americana. Sono la ragione del primato mondiale degli Stati Uniti in ambito militare. Dunque, sono loro a fare la differenza, tanto politica quanto in economia, come per la strada.

American History X
Lungi dal dimenticare che nella vicenda di Boston possono intrecciarsi anche ragioni che trovano nel terrorismo internazionale le influenze e le meccaniche di quel gesto folle, la cultura delle armi resta protagonista. Certo, nella vicenda specifica, l’aspetto psicologico deve aver contato molto: la condizione sociale, reale o percepita, delle seconde o terze generazioni di immigrati possono aver influito e di cattivi maestri, tra realtà e web, i fratelli Tsarnaevne avranno trovati a bizzeffe. Una storia che ricorda molto da vicino la pellicola “American History X” (USA, 1998), un film che illustra il dramma di due fratelli americani, il più grande dei quali influenza il più giovane ad accostarsi a idee radicali (in questo caso, neonaziste) perché frustrato da un Paese, gli Stati Uniti, che non sa offrirgli altro che violenza. Violenza di cui i due fratelli saranno prima carnefici e poi vittime. Così come i fratelli attentatori hanno trovato nelle armi e nella violenza risposte che altrove nessuno ha saputo dargli. E come altri potrebbero dopo di loro.

La battaglia personale di Obama
Proprio Obama deve aver provato una frustrazione personale nel vedere fallito il progetto di legge sulle armi, che il presidente democratico ritiene un “progresso culturale”. Anche lui, figlio di un keniota e di una madre statunitense dalle origini europee - e che ha vissuto l’infanzia tra Honolulu e un Paese musulmano, l’Indonesia - conosce le dinamiche del non sentirsi pienamente accettato o del tutto “americano”, ha portato dentro sé il peso della questione razziale e sa cosa significhi la rabbia giovanile.

Ecco perché per Barack Obama la lotta sul tema delle armi “non finisce qui”. Come egli stesso ha affermato dopo la strage di Newtown: “Da quando sono presidente, questa è la quarta volta che ci troviamo insieme per dare conforto ed essere in lutto con una comunità distrutta da una sparatoria di massa. […] E nel mezzo c’è stata una serie infinita di sparatorie mortali nel Paese, praticamente una ogni giorno. […] Non possiamo più tollerare una cosa simile. Queste tragedie devono finire. E per porre loro una fine, dobbiamo cambiare. […] Perché, quale altra scelta abbiamo?”.

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