Lana Del Rey, "Ultraviolence": la recensione
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Musica

Lana Del Rey, "Ultraviolence": la recensione

La raffinata bellezza di un disco che guarda a un'altra era della musica

Basta mettere in fila i volti e le canzoni delle ultime popstar virali per comprendere che Lana Del Rey è lontana anni luce dalla "generazione vuoto cosmico". Ultraviolence non è un album vacuo, così come non lo era Born to die.

West Coast o l'iniziale Cruel World sono brani a più strati, con una complessità che si scopre ascolto dopo ascolto. Ci sono i suoni che attingono alla tradizione psichedelica 60's, un intrigante gusto pop noir e una grande capacità di interpretazione. Ha anche un'anima jazz blues, Lana. Lo si capisce ascoltando uno dei pezzi forti del disco, Sad Girl. E la memoria torna a Nico, la bionda enigmatica musa dei Velvet Underground. 

Ultraviolence non è un album a senso unico, perché è volutamente ispirato a un'altra era della musica quando gli artisti non si confinavano da soli in aree protette e recintate. Erano i Settanta e Lana non era nemmeno nata. 

Splendido il quadro sonoro di Brooklyn Baby, ideale colonna sonora per una vita da hipster. Intensità blues anche in Money Power Glory, lenta, cadenzata, sarcastica, ma irresistibile. Tra i pregi di Ultraviolence c'è quello di essere, dal punto di vista del suono, meno artefatto di Born to die. Merito del produttore, Dan Auerback, dei gettonatissimi Black Keys.  

Auerbach ha spogliato la musica della Del Rey di alcuni orpelli, l'ha svuotata per poi riempirla di arrangiamenti intricati, sommersi, quasi invisibili, ma che alla fine del disco fanno la differenza. Se c'era ancora un dubbio è stato fugato: Lana Del Rey non è una one hit wonder. Anzi, la sensazione è che il meglio debba ancora venire...

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Gianni Poglio