Le vere cause del tracollo dell'esercito iracheno
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Le vere cause del tracollo dell'esercito iracheno

Dal ritiro degli istruttori americani l'esercito di Baghdad è privo di addestramento - Obama manda in Iraq 275 uomini

È passato meno di un mese da quando Nouri al-Maliki ha vinto le elezioni politiche conquistando il suo terzo mandato da premier iracheno con le congratulazioni di tutto il mondo occidentale, Stati Uniti in testa. Gli stessi Paesi che nell’ultima settimana hanno chiesto al premier di cambiare politica, di aprire alla minoranza sunnita che proprio Maliki aveva emarginato chiedendo aperture alle quali Washington oggi condiziona quegli aiuti militari forniti fino a ieri senza alcuna contropartita.
A far mutare l’atteggiamento degli Stati Uniti non sono stati fattori politici ma puramente militari: l’invasione del nord del Paese da parte delle milizie qaediste dello Stato Islamico di Iraq e Sham (ISIS)   e soprattutto il tracollo dell’esercito iracheno sbandato su tutti i fronti.

Intere brigate si sono ritirate da Mosul, Tikrit  e altri centri del nord-ovest senza combattere e abbandonando al nemico armi, mezzi ed equipaggiamenti inclusi una ventina di carri armati T-55 e centinaia di veicoli Hummer ceduti dagli americani alle forze di Baghdad.  Nella provincia di al-Anbar è stata registrata un'incursione dei miliziani islamisti siriani del Fronte al-Nusrah che hanno sconfinato in Iraq per attaccare un reparto della 14a divisione irachena  sottraendo loro armi, munizioni e veicoli per poi riparare di nuovo nella base dei jihadisti di Abukamal, in territorio siriano.

Il collasso dell’esercito iracheno, che sta oggi costringendo il governo ad armare i civili e ad affidare la difesa di Baghdad alle milizie dei gruppi radicali sciiti, non costituisce però un evento improvviso. Quando a gennaio le forze dell’ISIS provenienti dalla Siria espugnarono Fallujah e Ramadi le truppe irachene  non riuscirono a sconfiggerle pur schierando sul campo 42 mila dei 270 mila soldati che componevano l’esercito di Baghdad pima degli ultimi rovesci. Migliaia di soldati, soprattutto sunniti, disertarono a un ritmo ritenuto preoccupante da un rapporto pubblicato nel maggio scorso dal Washington Post che citava fonti irachene. Se i soldati sunniti non intendevano combattere per uno Stato che li emarginava   anche le reclute sciite inviate a rimpiazzarli si sono date spesso alla fuga dopo i primi scontri con gli esperti miliziani dell’ISIS, veterani di mille battaglie.
L’esercito iracheno, disciolto dagli americani dopo la caduta di Saddam, Hussein e ricostituito nel 2004 è stato formato dagli istruttori alleati (anche italiani) come forza anti-guerriglia e come tale ha operato con crescente successo fino al ritiro delle truppe UUSA e Nato, alla fine del 2011. Da allora le forze armate hanno assunto le caratteristiche di tutta la pubblica amministrazione irachena caratterizzata da corruzione, inefficienza e clientelismo. I fondi per l’addestramento dei reparti sono finiti in molti casi nelle tasche dei generali spesso nominati per amicizie e intese tra i clan sciiti mentre è stata spesa una fortuna per acquisire in Russia, Ucraina e Stati Uniti missili, aerei, carri armati ed elicotteri che nessun militare iracheno sa impiegare. 

La spaccatura tra sciiti e sunniti, accentuata dalla politica di al-Maliki, ha ingigantito il fenomeno delle diserzioni, oggi punite con la morte, e ha indotto molte tribù sunnite ad appoggiare l’offensiva dell’ISIS pur non condividendo l’integralismo islamico dei qaedisti. Il mondo si è accorto solo con la caduta improvvisa di Mosul e l’avanzata dell’ISIS  verso Baghdad di quanto drammatica fosse la situazione militare in Iraq ma gli indizi erano evidenti già in aprile quando il governo chiuse il supercarcere di Abu Ghraib, situato ad appena 40 chilometri dalla capitale, non per ragioni umanitarie ma perché la zona era già in mano ai ribelli che avrebbero potuto cercare di liberare i 2.400 qaedisti detenuti.
Onu, Stati Uniti e Australia hanno già iniziato a sgomberare ambasciate e uffici di rappresentanza da Baghdad a conferma di quanto la situazione rischi di assomigliare al tracollo del Sud Vietnam nel 1975 . Nonostante gli appelli di Washington e Riad a Maliki perché apra a un governo allargato ai sunniti non sembra essere questo il momento per soluzioni politiche. La difesa di Baghdad  è oggi una questione prettamente militare e la mobilitazione di milizie sciite da contrapporre a quelle sunnite non potrà che favorire lo scoppio di quella guerra civile e confessionale su vasta scala che era l’obiettivo principale dei qaedisti in Iraq fin da quando erano guidati da Abu Musab al-Zarqawi. 

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Gianandrea Gaiani