L'Italia tra Libia e Frontex: che fare?
Pattugliamenti e missioni europee sono importanti ma non modificheranno le condizioni nel Mediterraneo - La solidarietà di Lampedusa - La mappa dei migranti -
per Lookout News
Il governo italiano ha avviato, su impulso del primo ministro Enrico Letta, un piano di pattugliamento costiero definito “militare-umanitario” per evitare il ripetersi di quelle tragedie del mare che purtroppo ben conosciamo e su cui è inutile tornare, come le ultime vissute sul canale di Sicilia e a Lampedusa.
In proposito basti ricordare che, secondo stime del Frontex e dell’UNHCR, le morti lungo le coste italiane (dal 1988) sono stimate oltre quota 19mila, mentre gli arrivi solo quest’anno ammontano complessivamente a 30mila persone, la stragrande maggioranza delle quali siriane, eritree e somale, salpate in larga parte dalla Libia, ovvero quel Paese che il ministro della Difesa, Mario Mauro, ha chiamato a buon diritto “un non-Stato”.
L’ultimo barcone giunto in Italia dalla Libia, per dire, è affondato a causa dei fori di proiettile provocati già alla partenza dalle coste libiche: forse l’imbarcazione era stata mitragliata dalla guardia costiera libica, forse da organizzazioni rivali di trafficanti d’uomini o forse da altri ancora.
Significative, in tale contesto, le parole pronunciate domenica dal primo ministro libico, Ali Zeidan, di fronte al suo omologo maltese, Joseph Muscat, che ha visitato la Libia per trattare la questione migranti: “Siamo determinati ad affrontare il problema” ha detto Zeidan.
Peccato che il primo ministro libico sia la stessa persona che giusto la settimana scorsa è stata prelevata con la forza dal suo alloggio all’Hotel Corinthia, da uomini armati che lo hanno sequestrato in perfetto stile mafioso, minacciandolo affinché il capo del governo non prenda iniziative di alcun tipo senza il permesso delle milizie locali. Ovvero quelle che controllano, oltre al traffico di armi, anche quello di esseri umani.
Cosa ci racconta tutto questo? Non solo che la Libia è effettivamente un “non-Stato” ma anche che il problema non è arginabile con il solo pattugliamento temporaneo del Mediterraneo da parte dell’Italia, di Malta o di altre entità statali. Da cui l’appello all’Europa unita, per prendere in seria considerazione la questione.
- Frontex, l’agenzia europea per il pattugliamento frontaliero
L’Europa, nel florilegio di organizzazioni e agenzie intergovernative create ad hoc chi siede nell’emiciclo di Bruxelles (in questo caso, ha agito nella sua veste più autorevole, cioè quella del Consiglio Europeo), ha istituito l’agenzia europea Frontex a fine 2004. Suo scopo precipuo è quello di coordinare il pattugliamento delle frontiere dell’Unione Europea via mare, terra e cielo, nell’ambito degli accordi frontalieri previsti da Schengen.
Ora, Frontex - che peraltro ha sede in Polonia e dunque è ben lontana dalle tragedie che si consumano nel Mediterraneo - ha predisposto sinora una serie di missioni e dispiegamenti di forze lungo tutti i confini dell’Unione, in coordinamento con altri organismi comunitari “responsabili della sicurezza alle frontiere esterne”: come l’Europol, cioè la polizia euro-connessa contro i crimini e il terrorismo intenazionle; il Cepol, ovvero una sorta di campus per poliziotti comunitari che si ritrovano periodicamente per scambiare informazioni e metodologie di investigazione; e l’Olaf, ovvero l’ufficio europeo per la lotta anti-frode.
Il nome stesso di Frontex, “Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea”, la dice lunga sulla sua capacità di operatività: lenta e vittima della burocrazia, come del resto altri pur importanti istituti UE.
Frontex è certo un apprezzabile punto di partenza per il coordinamento transfrontaliero, ma l’agenzia europea nell’atto pratico provvede alle sole SAR, “Search And Rescue operations”, cioè a operazioni di ricerca e salvataggio dei migranti. A tale compito, secondo un sondaggio ufficiale dell’agenzia stessa, nel mediterraneo si prodigavano in totale 50 enti separati, posti sotto 30 diversi ministeri e rispondenti a sette diversi Paesi: Spagna, Francia, Italia, Slovenia, Malta, Grecia e Cipro, più il Portogallo. Il coordinamento è quindi stato affidato all’European Patrols Network, che ne ha fatta una sintesi, al fine di evitare di centuplicare gli sforzi.
Peccato che per prendere le decisioni operative - tra la richiesta di uno Stato membro, la valutazione del rischio e delle opportunità del board, l’invio di esperti per valutare l’opportunità della missione, la conclusione della direzione esecutiva, la selezione del team da spedire per la missione (se approvata) e il dispiegamento in campo delle forze - non passa meno di un paio di mesi. Inoltre, le operazioni Frontex si attivano a richiesta e non sono in campo permanentemente.
A ben guardare, le uniche missioni Frontex in elenco nel 2013 sono volte al rimpatrio dei migranti nelle loro terre d’origine, senza alcun pattugliamento. L’ultima missione che si conosce e ha riguardato l’Italia intercettava le rotte del centro Mediterraneo: si chiamava Aeneas, dal nome del mitologico fondatore di Roma, operava nella “lotta contro l'immigrazione clandestina dal Mar Ionio verso l'Italia”, e riguardava principalmente i flussi clandestini provenienti da Turchia ed Egitto verso Puglia e Calabria. Costo? Dieci milioni di euro in un anno.
- Il futuro dell’Europa unita
Se il futuro dell’Europa unita passa per singole iniziative o attraverso operazioni come Frontex - al netto dell’importanza di un tavolo di coordinamento per vigilare i movimenti transfrontalieri dell’Unione - il ritardo nella costituzione di un metodo efficace per evitare continue tragedie di cui ci dogliamo per il tempo di un weekend, non potrà che portare a nuovi drammi per l’Europa unita e per i Paesi di provenienza di queste persone.
Per quanto ci riguarda, la Libia - Paese strategico e tra i nostri principali partner per import ed export - è oggi una nazione in rotta, preda di forze criminali e condizioni criminogene che non è possibile estirpare se non con interventi diretti in loco. Questo, per quanto noto, non avviene se non in una parte minima e ininfluente, e gestita in totale autonomia dai settori privati.
I nostri rispettivi governi sono ancora incapaci di giungere a soluzioni strategiche e di lungo corso. Dopo la guerra, il nostro ruolo in nordafrica non è affatto chiaro e, al di là delle commesse storiche, l’Italia non riesce a guardare alla Libia come a un mercato dove puntare per nuovi sodalizi istituzionali, fatto che contribuirebbe a migliorare le reciproche economie e a rasserenare la situazione eversiva in cui versa il Paese nordafricano.
Se non siamo in grado perché le condizioni del governo libico non lo consentono, diciamolo con chiarezza e senza fraintendimenti. Altrimenti, questo è il momento di prendere provvedimenti veri in tal senso. Perché il pericolo di nuovi eventi destabilizzanti è dietro l’angolo.