Il M.A.S.H. italiano: l'ospedale n.68 nella guerra di Corea
Operazione chirurgica nell'ospedale italiano n.68 di Jeoung-Dung-Po. L'equipe è coordinata dal Capitano medico Pietro Poloni, con gli occhiali (Getty Images)
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Il M.A.S.H. italiano: l'ospedale n.68 nella guerra di Corea

Nel 1950 l'Italia ancora fuori dall'Onu offrì un ospedale della Croce Rossa Militare per i civili coreani. Operò dal 1951 al 1954 totalizzando migliaia di visite e operazioni, ricevendo l'encomio solenne degli Americani

Oggi forse non stupirebbe più di tanto, ma settant'anni fa vedere un bambino coreano correre gridando in italiano lungo il perimetro di un ospedale militare a quattro miglia da Seul e a una ventina dal fronte sicuramente sì. Lo scenario era quello della guerra di Corea lungo la linea del 38°parallelo, scoppiata nel giugno 1950 in seguito allo sconfinamento delle forze comuniste nordcoreane nel territorio meridionale e al conseguente intervento americano.
Quel bambino, descritto in un articolo a firma di Indro Montanelli allora inviato per il Corriere della Sera, stava giocando intorno ad un ospedale italiano, diventato la sua nuova casa nel villaggio di Jong-Dung-Po (oggi parte integrante dell'area metropolitana della capitale sudcoreana).
Quella struttura, sistemata nell'edificio di una ex scuola elementare, era l'ospedale n.68 gestito dal Corpo Militare della Croce Rossa Italiana.


La struttura gestita da medici e volontari italiani fu molto importante, oltre che dal punto di vista sanitario, anche da quello politico e diplomatico dato che l'Italia partecipò per la prima volta ad una missione internazionale assieme alle forze dell'Onu pur non facendone ancora parte. Il percorso prima della realizzazione dell'ospedale durò un anno e partì nell'autunno del 1950 in un'Italia (nazione sconfitta) ancora alle prese con le clausole dei trattati di pace e con la questione di Trieste pienamente in corso nel panorama della Guerra Fredda.


Fu il risultato dell'opera diplomatica di Alcide De Gasperi a portare alla realizzazione dell'ospedale, nonostante i ripetuti veti da parte del Partito Comunista che osteggiava l'invio di un contingente a fianco della potenza nemica di Mosca. La scelta della struttura sanitaria fu dovuta anche al fatto che per effetto dei trattati postbellici all'Italia era precluso l'intervento per mezzo di contingenti in armi. Ci vollero mesi, durante i quali i sanitari del Corpo Militare si esercitarono in patria all'allestimento dell'ospedale campale fino al via libera da parte delle Nazioni Unite giunto soltanto un anno dopo la proposta italiana, esaminata nel maggio 1951 e approvata definitivamente nell'autunno successivo.


Dopo la conferma definitiva della missione per l'assistenza dei civili colpiti dagli eventi bellici l'ospedale Cri n.68 prese forma, allestito da Italiani in grigioverde che a prima vista parevano soldati americani. Le divise dei sanitari della Croce Rossa Militare erano infatti del tutto simili a quelle davanti alle quali i soldati italiani si erano arresi appena cinque anni prima, compreso l'elmetto modello M-1 sul quale spiccava la croce rossa della sanità militare. Anche i mezzi da imbarcare (che prevedevano il trasporto di un ospedale attendato) erano made in Usa: le autovetture erano le Jeep Willys e le Dodge Wc 51 e Wc 54 allestite ambulanza e i "pesanti" erano i GMC Ccww 353, tutti residuati bellici lasciati dagli Americani alla fine della guerra e ricondizionati in Italia. Sette erano gli ufficiali medici coadiuvati da un ufficiale farmacista, un cappellano militare e due ufficiali commissari. Ai loro ordini rispondeva il resto del personale sanitario composto da sei infermiere volontarie della Cri e da assistenti di sanità con compiti infermieristici, oltre a due autisti per ogni mezzo. L'autocolonna si imbarcò da Napoli il 16 ottobre del 1951 a bordo della nave americana USS Langfitt per giungere in Corea il 1 novembre successivo : il direttore sanitario era il Capitano medico Dott. Luigi Coia, affiancato dal vice comandante tenente Carmine Fusco, specializzato in pediatria. Stabilitosi a Jong-Dung-Po, l'ospedale 68 fu interessato da un sostanziale cambio rispetto ai programmi iniziali: al posto dell'attendamento previsto si scelse l'installazione in una struttura in muratura, la scuola elementare di Usin, a causa delle temperature rigide dell'inverno coreano mal valutate dai comandi in Italia.

La struttura iniziò il servizio attivo per i civili e i militari il 12 dicembre 1951 con la capienza iniziale di 100 posti letto, presto occupati da civili coreani di tutte le età, che affollarono con lunghe code anche gli ambulatori di diverse specialità. La popolazione di Seul aveva infatti enorme necessità di assistenza sanitaria, poiché le condizioni di vita di un popolo uscito da anni di occupazione giapponese e poi da una guerra mondiale era allo stremo. Mancavano cibo e medicine, e le malattie falcidiavano le persone di ogni età e genere. Gli italiani misero a disposizione per la prima volta la penicillina e altri farmaci salvavita preparati dal farmacista sottotenente Gian Luigi Ragazzoni. Le patologie più comuni erano in primo luogo la tubercolosi, seguita dalla lue e da un diffuso rachitismo nei più piccoli oltre alle altre patologie di competenza chirurgica. Proprio i bambini godranno di un occhio di riguardo da parte del personale italiano, affetti oltre che dalle malattie comuni anche dalla malnutrizione. Davvero toccanti furono alcuni degli episodi raccontati sulle pagine dei quotidiani dell'epoca dai sanitari dell'ospedale n.68 intervistati dagli inviati. Uno dei più significativi fu testimoniato da uno degli autisti delle Jeep Willys di servizio presso l'ospedale, che si era trovato a transitare attraverso il mercato della cittadina nel gelo invernale. Il conducente, ex autista di taxi a Roma e reduce di guerra nel corpo di Sanità italiano, buttò l'occhio al marciapiedi e rimase scioccato: accovacciati sul terreno gelato stavano due bambini dell'apparente età di cinque anni, che se ne stavano immobili abbracciandosi per cercare di proteggersi dal gelo. Li vide paonazzi, di un colore che prelude alla morte per congelamento, nell'indifferenza di tutti gli avventori del mercato popolare. Neppure ci pensò un secondo, il "tassinaro" con la croce rossa sull'elmetto. Dimenticati gli ordini per una volta, la Jeep fece inversione con i due piccoli caricati a bordo e da allora ospiti dell'ospedale italiano circondati dall'affetto e dalle cure delle infermiere volontarie Cri.


L'ospedale italiano, che ben presto divenne anche un luogo di aggregazione per i soldati americani di origini italiane alla ricerca di un po' di folclore delle loro origini, funzionò da subito a pieno ritmo, fatto accertato dai dati divulgati nell'aprile 1953 che registravano 1.682 ricoveri e oltre 82.000 visite ambulatoriali. Ad un anno dall'apertura il personale sanitario dell'ospedale n.68 ricevette la visita ufficiale del sottosegretario agli esteri Giuseppe Brusasca, accolto oltre che dai militari e dalle infermiere, anche dal comandante della VIII Armata americana in Corea generale James Van Fleet.
Durante gli anni di permanenza a Jong-Dung-Po, gli italiani di servizio in Corea si distinsero nei soccorsi in occasione di una grave sciagura ferroviaria. Il 17 settembre 1952, appena dopo l'insediamento del nuovo comandante il Maggiore medico Prof. Fabio Pennacchi, un treno locale carico di studenti in viaggio da Incheon a causa dell'espolsione della locomotiva precipita da un viadotto nelle acque gelide del fiume Han, giusto nei pressi dell'ospedale n.68. Appena giunto l'allarme tutti gli uomini e i mezzi a disposizione corsero sul luogo della sciagura, facendo la spola per ore per l'evacuazione dei feriti, molti dei quali in condizioni disperate (l'ortopedico italiano operò sul posto dieci amputazioni). Il bilancio finale fu pesante: 17 morti e più di 200 feriti, molti dei quali trasportati all'ospedale italiano, che la sera stessa riceverà l'encomio del comandante delle forze di Sanità americane, il colonnello Douglas Lindsey.


Ma gli uomini e le donne della Croce Rossa Italiana erano attesi da prove ancora più difficili a migliaia di chilometri da casa. Il 30 novembre 1952 la struttura fu distrutta dalle fiamme, divampate a causa di un incendio partito da combustibile innescato erroneamente da un inserviente coreano. Per le infermiere volontarie e i militari fu una corsa contro il tempo per portare in salvo i 137 pazienti in quel momento ricoverati, in particolare modo 32 intrasportabili per i quali fu necessaria il rapido e rischioso smontaggio di letti e apparecchiature. Grazie alla prontezza dei militari e delle crocerossine si salveranno tutti, venendo in seguito trasferiti tra i vari ospedali civili di Seul. Grazie all'intervento del comando americano, l'ospedale n.68 potrà riprendere l'attività in una nuova sede prefabbricata proprio di fronte alle rovine della scuola elementare. Siamo nel 1953, l'ultimo anno della guerra di Corea, ma l'avvicinarsi del ritiro del contingente americano non significò la fine delle attività per l'ospedale n.68. Ancora per un anno gli uomini e le donne del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana apriranno le porte ai civili bisognosi di cure, con lunghe e composte file di uomini, donne e bambini davanti all'ingresso della struttura prefabbricata. La chiusura della struttura ospedaliera fu decisa per il 31 dicembre 1954, dopo tre anni di frenetica attività dell'ospedale di Jong-Dung-Po (che anche i civili coreani affettuosamente italianizzarono in "Guardaunpò"). Le visite ambulatoriali superarono le 190.000, oltre 3.000 le operazioni chirurgiche per totali 125.000 giorni di degenza. Una prestazione veramente degna di nota, che i cittadini di Seul continuano a ricordare oggi di fronte al cippo commemorativo eretto nel luogo dove sorgeva l'ospedale n.68. Neppure la comunità internazionale dimenticò l'opera prestata da quei sanitari italiani che appena pochi anni prima sarebbero stati fatti prigionieri di guerra dagli uomini di Eisenhower e Patton, simboli di una nazione sconfitta con una voglia incontenibile di riscatto.
Riscatto che arrivò davanti a tutto il mondo il 14 dicembre 1955 quando l'Italia di Gronchi e Segni fu inclusa come membro a tutti gli effetti delle Nazioni Unite, atto che traghettava formalmente il Paese fuori dal limbo della nazione sconfitta dieci anni prima. E questo percorso fu possibile anche grazie all'impegno e alla fatica quotidiana degli uomini e delle donne dell'ospedale militare n.68, nei tre anni di attività del nostro M.A.S.H. con la bandiera tricolore.

Preparazione del materiale ospedaliero nel magazzino della Croce Rossa a Roma (Getty Images)

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Edoardo Frittoli