I serbi-kosovari vogliono ricongiungersi a Belgrado
Il cuore instabile della ex Jugoslavia paga ancora il conto di una soluzione politica inefficace
Per Lookout news
La pace e la stabilità nei Balcani non possono dirsi ancora complete. E numerosi segnali certificano l’incertezza che assedia ancora questa parte di mondo, rimasto a metà strada tra l’Europa politica e unres nullius. Il Kosovo ne è l’esempio migliore: le tappe principali della sua indipendenza - il piccolo Stato è sorto dalla guerra che la NATO ha scatenato contro la Serbia di Milosevic nel 1999 per fermare i massacri degli albanesi - sono ascrivibili al febbraio 2008, quando il Paese balcanico si è autoproclamato Repubblica indipendente dalla Serbia, e al settembre 2012, quando l’ONU ne ha decretato l’entità statuale, dando il via a un’amministrazione controllata del territorio (però non riconosciuto ancora da Paesi come Russia e Cina e, soprattutto, da membri dell’Unione quali Romania, Slovacchia, Spagna, Grecia e Cipro).
Con la proclamazione del 10 settembre 2012, il Kosovo ha scommesso così sulla totale autonomia. Ma quel giorno sono scaduti i termini legali del piano Ahtisaari, un sistema di regole varato sotto la supervisione UE che, dal 2007, ha monitorato e controllato il processo d’integrazione tra le etnie kosovare (albanesi, serbi e turchi). Il piano Ahtisaari, studiato soprattutto per offrire garanzie alla minoranza serba, non è stato adeguatamente implementato dal governo di Pristina, la capitale kosovara a stragrande maggioranza albanese, e oggi la situazione nel Paese è lungi dal potersi definire tranquilla.
Dall’indipendenza al ritorno verso la Serbia
È notizia di adesso, infatti, che i serbi del nord del Kosovo hanno creato un’assemblea provvisoria a Mitrovica che rifiuta gli accordi stretti fra Belgrado e Pristina e che si pone sotto l'autorità della Serbia. Uno sgambetto al processo di adesione all’Unione Europea serbo, dopo solo una settimana dall’ingresso della Croazia, che conferma le diverse velocità a cui viaggiano ormai i protagonisti della disgregazione della Jugoslavia.
Ovviamente, il primo ministro serbo, Ivica Dacic, non riconosce l’assemblea di Mitrovica e promette che gli accordi presi con il governo di Pristina saranno rispettati, liquidando l’iniziativa kosovara con poche parole: “Simili iniziative non giovano né alla Serbia né ai serbi e non sono in accordo con la Costituzione: peraltro non c’è alcun bisogno di reagire a qualcosa che non esiste”.
Intanto, però, nel distretto del Nord le città di Kosovska Mitrovica, Zvecan, Lepovac e Subin Potok è stato varato un piano quadriennale per “resistere a un’ingiustizia e a forti pressioni, a violazioni della legge e all'arroganza dei politici che forzano la sovranità a vantaggio della repubblica illegale del Kosovo”.
Il primo ministro Dacic e il presidente Nicolic non sono particolarmente ostili a una spartizione che faccia tornare alla Serbia almeno le quattro provincie del nord: l’ipotesi della secessione però sarebbe giudicata inaccettabile da Pristina, e costituirebbe il detonatore per l’esplosione di nuovi scontri etnici.
La questione etnica
Un punto cruciale è che in queste province, la maggioranza locale serba vive con stipendi, sussidi e pensioni che provengono dalla Serbia: sessantamila abitanti che, ad esempio, continuano a immatricolare a Belgrado le proprie automobili e rifiutano - anche con la violenza - la presenza di poliziotti kosovari ai varchi di frontiera (varchi che, dopo gli scontri del 2011, restano di fatto incustoditi).
Questo non fa che alimentare il sentimento antiserbo e xenofobo della maggioranza albanese del Kosovo che costituiscono circa il 90% della popolazione, con uno dei tassi di crescita della popolazione più alti di tutta Europa. Ciò condiziona non poco il governo di Pristina che non riesce, o non vuole, applicare quelle norme del piano Athsaari per l’assistenza e l’autonomia amministrativa per la minoranza.
Solo i 25mila serbi che vivono a sud del fiume Ibar - raccolti in borghi rurali o nelle città-dormitorio di Granica e Strpce - accettano ancora l’autorità di Pristina, pur continuando a ricevere sussidi da Belgrado. Il nord, invece, resta quel guazzabuglio politico e amministrativo di cui sopra e scontri tra estremisti dei due gruppi etnici e reciproche violenze, continuano sotto gli occhi impotenti della KFOR, la forza multinazionale di peacekeeping schierata qui dal 1999.
Da una parte, nelle municipalità a maggioranza albanese le aggressioni contro i serbi (descritte dagli osservatori UE come veri e propri pogrom) sono all’ordine del giorno. Solo un anno fa a Feriza, il capo della comunità serba e la moglie sono stati uccisi in casa, mentre nel comune di Kiline si sono registrati in passato tentativi di avvelenare le derrate alimentari destinate ai negozi serbi.
Dall’altra parte, l’ostinazione con la quale i serbi continuano a insegnare alle nuove generazioni soltanto la lingua della “madrepatria” costruendo una barriera linguistica, non potrà che alimentare ulteriormente odio e reciproca xenofobia.
In conclusione, nel cuore dei Balcani sembrano prevalere ancora istinti autodistruttivi, mentre l’algida Europa osserva il tutto con freddezza burocratica. Italia compresa, che invece avrebbe potuto e potrebbe ancora giocare un ruolo determinante per emancipare dall’odio e dalla divisione etnica questa parte d’Europa che rischia di essere lo specchio dell’inconsistenza del progetto paneuropeo.