Il pasticcio della "grande moschea" a Milano
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Il pasticcio della "grande moschea" a Milano

L'Expo si avvicina e il comune deve decidersi. Ma la proposta più accreditata ha troppi lati oscuri - Chi sono i musulmani a Milano

In campagna elettorale Giuliano Pisapia aveva promesso "un grande centro di cultura islamica, comprensivo di moschea", per il comune di Milano. Tre anni dopo, l’Expo è alle porte e la "grande moschea" ancora non si vede. Poco male, perché il progetto c’entra poco con la comunità islamica milanese, fatta di tante realtà che si conoscono poco e si sopportano ancora meno. Si riuniscono in palestre, garage, capannoni. Sono situazioni precarie, al limite della clandestinità, alle quali deve essere offerto un percorso di regolarizzazione – anche per togliere argomenti agli estremisti: è difficile odiare lo Stato italiano, se ti concede strutture accoglienti, con regole precise e ambienti decorosi in cui pregare.

A mapparle ci ha pensato l’ex vicesindaco Maria Grazia Guida, che poi si è dimessa in corso d’opera per seguire l’avventura, non troppo fortunata, del Centro Democratico di Bruno Tabacci. Il progetto è continuato, con molti ritardi ed esiti discutibili: dall’albo, pubblicato a dicembre, sono state escluse realtà importanti, come la moschea di Segrate o il centro di Asfa Mahmoud, che Milano aveva premiato con l’Ambrogino d’oro nel 2009.

E la grande moschea? Le trattative continuano, ma c’è una proposta sola: quella del Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano (Caim), che vuole una moschea al posto dell’ex Palasharp in tempo per l’Expo. Il Caim riunisce varie realtà, non tutte trasparenti: c’è quello che resta del centro islamico di viale Jenner – che ormai non è più “la stazione principale di al Qaeda in Italia” (definizione del Dipartimento di stato americano ), dove partecipava al jihad anche il bibliotecario (non è un modo di dire, si chiamava Yassine Chekkouri , è nel carcere di Guantanamo dal 2002). Non c’è più l’imam Abu Imad, accusato di associazione a delinquere finalizzata al terrorismo internazionale, che ha finito di scontare tre anni nel carcere di Benevento a fine maggio scorso ed è andato subito in Egitto – giusto in tempo per assistere alla caduta di Morsi, deposto un mese dopo. Il centro resta tra i più importanti e i meno integrati, ma la sua indole è cambiata. Lo dimostra, ad esempio, il fatto che i suoi responsabili abbiano accettato di trattare con un’amministrazione comunale guidata da un sindaco di Sel, molto distante dai valori professati in viale Jenner.

Nel Caim ci sono anche la comunità del Bangladesh, i fedeli del centro islamico di Cascina Gobba e i turchi Millî Görüş – un’associazione che in Germania è tenuta sotto stretta osservazione, perché considerata a un passo dall’illegalità. La corte tedesca di Wiesbaden ha sentenziato che “Millî Görüş è ostile ai principi democratici”. A Milano l’associazione ha una natura più aperta. È guidata da esuli turchi che hanno uno spirito nazionalista, ma anche un’occhio agli affari (lavorano nel business del kebab). In via Maderna, zona Mecenate, hanno un centro che hanno cercato di trasformare in moschea, usando una strategia azzardata: costuirsi una moschea da soli (con tanto di minareto) per poi mettere le autorità cittadine davanti al fatto compiuto. Il Comune, non appena l’ha saputo, ha fatto bloccare il cantiere.

Ma l’anima principale del Caim ha un legame molto stetto con i Fratelli musulmani. Non ne fa un mistero nemmeno il loro portavoce, Davide Piccardo – figlio di Hamza Piccardo, un convertito genovese, celebre per una traduzione del Corano non riconosciuta dalla comunità scientifica – che ha ammesso: "Per la comunità all’estero Milano è strategica". C’è un rapporto diretto con la Fratellanza egiziana: quando è iniziato il processo al presidente deposto Mohamed Morsi, a inizio novembre, per il centro di Milano hanno sfilato 150 auto con bandiere gialle, clacson strombazzanti e immagini di Morsi. L’animatore della protesta era Ahmed Abdel Aziz, 29 anni, coordinatore del Comitato libertà e giustizia (nome che ricalca, per non eccedere in originalità, quello del partito politico della Fratellanza in Egitto). Studia ingegneria, lavora come project manager, è stato per anni alla testa dei Giovani musulmani d’italia, per poi fondare il comitato e finire intervistato persino da Al Jazeera. A dicembre è stato eletto nel direttivo del Caim.

Come gli altri rappresentanti del coordinamento islamico, vorrebbe una moschea nell’area ex Palasharp. Il Comune si dice “in fase di ascolto”, ma al momento non ci sono altre proposte da ascoltare. Da Palazzo Marino fanno sapere che la trattativa non è conclusa, anche perché il Caim non rappresenta di certo tutti i musulmani milanesi. Ma l’Expo si avvicina e il tempo per iniziare i lavori è sempre più risicato. Se Pisapia vorrà davvero una grande moschea, un improbabile “Duomo islamico” di rappresentanza che accolga i turisti musulmani dell’Expo, non potrà non considerare il progetto del Caim, anche perché è a costo zero: “Ci sono fondazioni del Golfo Persico che metteranno a disposizione i finanziamenti necessari”, sottolinea il Caim. Sembra la soluzione perfetta. Ma siamo sicuri che sia la scelta giusta?

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Marco Pedersini

Giornalista. Si occupa di esteri. Talvolta di musica. 

Journalist. Based in Milan. Reporting on foreign affairs (and music, too). 

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