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Fake news scientifiche: come e dove si nascondono e perché

Spesso le fake news, ovvero le false verità, si nascondono dietro studi considerati "scientifici". Ecco una guida per capire come e perché una ricerca scientifica acquisisce lo status di "fatto oggettivo".

Non è poi così strano che l’Oxford English Dictionary abbia scelto come parola dell’anno 2016 “post-truth”, ovvero post-verità. Il neologismo descrive alla perfezione la nostra epoca, quella in cui le cosiddette fake news si sostituiscono ai fatti oggettivi. Qualcuno potrebbe obiettare che la menzogna è vecchia quanto la verità, formando con essa una diade inscindibile, ma vi è un fatto nuovo: oggi inganni e imposture si nascondono spesso dietro articoli e ricerche considerati come “scientifici”.

Un caso emblematico è quello del medico Piero Anversa: qualche anno fa, quando era ricercatore alla Harvard University, sostenne che cellule staminali potevano essere iniettate nel cuore e trasformate in cellule cardiache, rigenerando i tessuti. Le sue ricerche, pubblicate su prestigiose riviste accademiche, sembravano dargli ragione, tanto che Il governo americano decise di finanziare con milioni di dollari cure basate sulle sue tesi.

Di fatto non vi fu alcun beneficio reale per i malati e, non solo nell’ottobre scorso Harvard ha dichiarato che 31 articoli potrebbero contenere dati falsificati, ma otto sue pubblicazioni sono state rimosse dalla pubblicazione, o come si dice in inglese “retracted”, ovvero “ritirate”. Sembra proprio che un intero campo di ricerche sia stato inventato dal nulla, con tutte le conseguenze negative per i malati.

Secondo uno studio di Science, negli ultimi dieci anni il numero di pubblicazioni ritirate dalle riviste accademiche è decuplicato. Di queste, circa il 60 per cento erano vere e proprie frodi, il resto conteneva errori o peccava di plagio. Il Retraction Watch, una sorta di registro delle pubblicazioni ritirate, annovera tra quelle del 2018 il caso di alcuni ricercatori il cui articolo dimostrava i benefici dello zenzero nella dieta. Risultava esattamente identico a un altro precedentemente pubblicato, a parte il fatto che la parola asparago era stata sostituita da quella di zenzero ovunque nel testo.

Un altro caso riguarda una ricercatrice del centro tumori dell’Università del Texas, che ha usato il proprio sangue in un esperimento, facendolo apparire come quello di un campione di 98 pazienti. Infine uno scienziato con alle spalle 18 articoli ritirati pubblicava un’analisi con dati manipolati su un altro studio sulla dieta, accusando l’autore di aumentare le porzioni consigliate nelle ricette.

Il dato dell’aumento delle frodi non implica che è aumentato il numero di scienziati disonesti, semmai che i controlli sono diventati più severi e le tecniche per svelare gli inganni più sofisticate. Come afferma Daniele Fanelli, un ricercatore specializzato in studi sull’integrità della ricerca alla London School of Economics «negli ultimi dieci anni la maggior parte delle riviste ha stabilito nuove procedure per accogliere segnalazioni di irregolarità ed eventualmente ritirare gli articoli. In Italia da anni opera la Commissione bioetica del CNR, e ora si stanno discutendo piani per creare una Commissione nazionale».

Quando un ricercatore ha effettuato uno studio originale per contenuto, scrive un articolo seguendo le linee guida della rivista accademica sulla quale vuole pubblicarlo. Gli “editor” di quest’ultima lo inviano in versione anonima a due o tre esperti del tema su cui verte quella ricerca. Se i loro giudizi sono per la maggior parte positivi, allora l’articolo viene pubblicato ed entra a far parte della letteratura scientifica su quel tema. Si chiama peer-review, cioè “revisione tra pari”, ovvero tra persone con uguali competenze.

In questo processo le insidie sono moltissime: l’iper-specializzazione delle discipline fa sì che sia difficile trovare esperti in grado di giudicare una ricerca specifica; inoltre, non è detto che una frode venga scovata. A monte c’è poi il problema che le grandi compagnie, disponendo di ingenti risorse, spingono per studi che mettono in buona luce i loro prodotti.

L’agenda della ricerca viene così dettata da chi tende a favorire i propri obiettivi economici e le probabilità che chi deve giudicare le ricerche venga corrotto in vari modi, anche subdoli, aumentano. Negli ultimi trent’anni quattro grandi produttori di cioccolato hanno speso milioni di dollari in finanziamenti per ricerche poi riprese dai mass-media. A fronte di un grande numero di articoli passati indenni alla peer review (140 solo da ricerche finanziate da Mars), le vendite dei loro prodotti negli Stati Uniti sono cresciute di cinque miliardi di dollari in dieci anni. Ben il 98 per cento di queste ricerche sottolineavano i benefici del cioccolato, contro solo il 2 per cento che ne segnalavano i rischi.

Filosofi della scienza come Ludwik Fleck e Thomas Kuhn hanno sottolineato come che in campo scientifico quello che viene considerato come un “fatto oggettivo” è il frutto di un’interazione tra diversi attori, come ricercatori, divulgatori, politici, largo pubblico. A volte una fake news sorge proprio in queste interazioni.

Tre anni fa tutti i giornali improvvisamente parlarono del rischio concreto di entrare in una nuova glaciale. Come mai? Una ricercatrice aveva pubblicato sull’Astrophysical Journal la notizia che nei prossimi trent’anni l’attività solare si sarebbe ridotta del 60 per cento. Ma la riduzione dell’attività solare non implica necessariamente una variazione drastica del clima terrestre perché riguarda prima di tutto il numero delle macchie solari.

Nel 2001 National Geographic addirittura cadde in un tranello pubblicando le foto dei fossili di un fantomatico Archaeoraptor, spacciato per l’”anello mancante” tra dinosauro e uccello. Dopo due anni si scoprì che quei resti erano in realtà il frutto di un assemblaggio di vari fossili, alcuni recenti.

Se una ricerca suscita emozioni avrà più probabilità di essere ripresa. Ciò induce gli stessi ricercatori a commettere errori, anche in buona fede. Per esempio, The Spectatorcita un meta-studio, ripreso il mese scorso dalla BBC e daThe Guardian, che annunciava la fine di quasi metà delle specie di insetti entro un secolo. Questa conclusione era in linea con le giuste preoccupazioni derivanti dal riscaldamento globale, ma era una fake news.

I ricercatori avevano inserito in un database parole chiave che non catturavano quegli articoli di ricerca che dimostravano la crescita di alcune specie. Una statistica della rivista accademica Pnas dimostra che il declino economico del giornalismo si è tradotto in un maggior numero di ricerche riportate in maniera inaccurata. I social amplificano il loro impatto, specialmente quando fanno appello alle emozioni. Inoltre, i loro algoritmi tendono a far comunicare persone con le stesse idee, impedendo l’apertura alla critica. 

Visto che l’aggettivo “scientifico” viene considerato sinonimo di “assolutamente vero”, ignorando il carattere congetturale della scienza, personaggi senza scrupoli tendono a servirsene per i loro propri interessi. Hanno gioco facile se, come rivela Science, il 49 per cento dei cittadini americani non hanno ricevuto dalla scuola gli strumenti per capire in cosa consista un esperimento scientifico.

Succede quindi che Andrew Wakefield, un noto attivista antivax, firmi su Lancetun articolo fraudolento riguardante i legami tra vaccini a autismo e che poi, dopo vent’anni di battaglie, un imponente studio su 657mila bambini nati assolva la vaccinazione trivalente dal rischio di autismo.   

I ritiri di pubblicazioni scientifiche restano un fenomeno raro, quattro su 10mila. Il numero assoluto è cresciuto perché è aumentato il numero totale di pubblicazioni. Per avere un’idea di quanto pochi siano i ricercatori coinvolti, bisogna considerare che solo 500 su 30mila sono responsabili di un quarto di tutti i ritiri. E poi, dopotutto, non c’è nulla che possa essere giudicato un fatto indiscutibile e conclusivo, nemmeno uno studio pubblicato sulla più prestigiosa rivista accademica. La ricerca è un processo senza fine.

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Luca Sciortino