Lo schiaffo di Christine Lagarde alla Merkel
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Lo schiaffo di Christine Lagarde alla Merkel

Il direttore del Fmi si toglie dalla corsa alle nomine dove emerge, tra veti incrociati, come l'Europa sia tutto tranne che unita

Un comunicato stampa secco e inequivocabile: "Non sono candidata alla Commissione europea", dice Christine Lagarde e aggiunge: "Ho un lavoro assai importante e ho intenzione di finire il mio mandato". Il direttore del Fondo monetario internazionale in un attimo si sfila dalla corsa alla poltrona più ambita dell'Ue, dando uno schiaffo alla Cancelliera tedesca Angela Merkel, che da mesi inseguiva il "sogno Lagarde".

Una candidatura scomoda su più fronti, quella del direttore del FMI. Un nome che andava bene solo ad Angela Merkel, ma che non era certo gradito al presidente francese François Hollande (socialista), che non avrebbe mai detto sì a una sua rivale politica alla testa della Commissione. E poi c'è il folto gruppo di euroscettici, per i quali la Lagarde incarna il male assoluto, essendo la first lady del sistema bancario mondiale. 

Il "no" così esplicito di Christine Lagarde alla poltrona della Commissione Ue evidenzia due cose: le azioni della Cancelliera sono in forte ribasso. le sue strategie univoche per regolare l'Europa a uso e consumo della Germania sono nettamente osteggiate dal premier britannico David Cameron, e con lui dai popolari di Olanda e Svezia, oltre che dai battitori liberi stile Viktor Orban in Ungheria. E questo porta all'aumento esponenziale del tasso di litigiosità all'interno della grande famiglia del Ppe, con conseguente caos sulle nomine più importanti, le famose 5 poltrone-chiave dell'Unione europea.

Merkel aveva sostenuto fino all'altro ieri la candidatura del lussemburghese Jean-Claude Juncker, "certa" che alla fine non sarebbe stato lui, perché già da gennaio correvano voci sull'intenzione di mettere Christine Lagarde alla Commissione europea. In funzione di questo, in questi mesi la Cancelliera ha intessuto passo dopo passo una strategia sottobanco, per saziare la fame "socialista" con una poltrona di prestigio alla Nato (andata puntualmente al norvegese Stoltenberg ) e puntare alla Commissione. Ma la politica, nemmeno quella tedesca, non è mai una linea retta.

Così, adesso ci troviamo davanti a Juncker che non vuole mollare la presa e a David Cameron che - bastonato alle elezioni e sorpassato dall'Ukip di Farage primo partito e dai laburisti - fa la voce grossa in Europa e chiede una virata a U per una riforma radicale dell'Unione.

Funzionari britannici sottolineano tutta l'ostilità dei conservatori a Juncker, descritto da Cameron come "una faccia del passato". A margine del G7 di Bruxelles il premier del Regno Unito ha dichiarato che "E' importante scegliere persone che possano governare le istituzioni europee con in testa la necessità di un cambiamento, la necessità di riforme".

E Juncker non corrisponde certo a questo profilo, tanto che per parte sua si è invece arroccato sulle barricate dell'austerity, confermando la sua totale adesione a quelle stesse politiche che da più parti ormai vengono bollate come distruttive e additate come la causa del mancato inizio di una nuova crescita dell'Europa. 

Ma Cameron si è spinto anche oltre, dicendo che se la Commissione andrà a Juncker allora la Gran Bretagna uscirà dall'Europa. Lo sostengono in questa battaglia anti-burocrati sia l'Olanda che la Svezia.

E l'Italia? Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha dichiarato che quello che contano sono "le idee" e non i nomi, ribadendo l'allergia del governo italiano a sedersi al tavolo delle trattative per le "poltrone". Trattative che - però - con o senza l'Italia ci sono e che rischiano di lasciarci ancora una volta a bocca asciutta.

Sgomberiamo il campo dai voli pindarici. Come abbiamo già scritto l'Italia non può ambire alle cinque poltrone-chiave di questo valzer di nomine, avendo già una testa che conta alla BCE. Sono equilibri europei sottili, rituali canonici che vengono rispettati rigidamente per non far cadere l'impalcatura che sorregge l'Unione dei 28 Paesi. In più, sulla Commissione il leader italiano non ha alcuna voce in capitolo, perché è una partita tutta all'interno della famiglia dei Popolari, che hanno superato i Socialisti alle elezioni del 25 maggio, e Renzi appartiene al gruppo arrivato secondo. 

Alla luce dell'ultima tornata elettorale, pesa ancora di più l'errore italiano di aver mollato troppo in fretta la candidatura alla segreteria della Nato di Franco Frattini. Se il governo l'avesse continuata a sostenere, come era stato fatto nei due anni precedenti da Monti e Letta sotto la supervisione vigile del presidente Giorgio Napolitano, oggi nel paniere europeo potremmo contare su due posizioni verticistiche di tutto rispetto: Nato e BCE.

Al momento, invece, l'unica cosa sulla quale l'Italia può negoziare è un portafoglio di peso nella Commissione europea. Parliamo di poltrone come quella dell'Agricoltura o dello Sviluppo economico. Spetterà al presidente del Consiglio nominare un Commissario, sempre ricordando che qualsiasi nomina dovrà però passare al vaglio del Parlamento europeo, che può cassare anche commissari in pectore altamente qualificati, come è già successo in passato.

Come si uscirà dal caos delle nomine e quali sono gli schieramenti? Per la Commissione, archiviata la pratica Lagarde, chi è in corsa? I britannici sostengono Enda Kenny, attuale primo ministro d'Irlanda. Ma potrebbero anche appoggiare in seconda battuta il finlandese Jyrki Kaitanen, attuale premier ad Helsinki. E poi rispunta fuori il nome di Donald Tusk, primo ministro della Polonia in scadenza di mandato. Si tratterà di ricomporre a voce univoca il gruppo Popolare, che vede andare ognuno per la sua strada. 

L'ipotesi di una donna alla Commissione tramonta in maniera pressoché definitiva. La tanto osannata Helle Thorning-Schmidt, premier danese, è socialista, quindi può puntare alla presidenza dell'Ue ma non a quella della Commissione che spetta al Ppe.  Rimangono da riempire anche le caselle della presidenza del Parlamento e del capo della Diplomazia e dell'Eurogruppo.

Ma il nodo da sciogliere, quello che non fa dormire sonni tranquilli alla Germania, è e resta la Commissione. Riempita quella poltrona, tutte le altre verranno a cascata. La "disUnione" europea dovrà per forza ricompattarsi se vorrà cominciare a lavorare per affrontare la sua rifondazione e - soprattutto - per imboccare la strada di uscita dalla crisi. 

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Anna Mazzone