Le rovine di Kobane
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Ma il Kurdistan siriano complicherà la tregua in Siria

La creazione di una Federazione curda nel nord rischia di innescare nuove tensioni tra Mosca e Ankara

Per Lookout news

Il 27 febbraio scorso gli sforzi dell’inviato speciale dell’ONU in Siria, Staffan De Mistura, per arrivare a una soluzione condivisa della guerra civile che da cinque anni insanguina la Siria sembrano aver raggiunto un primo significativo obiettivo: tutti i principali protagonisti del conflitto (i lealisti del presidente Bashar Al Assad, i suoi sostenitori esterni, la Russia e l’Iran, e circa 36 gruppi armati di opposizione al regime di Damasco) hanno siglato un patto per il cessate il fuoco nella regione.

 Soltanto i jihadisti sono stati esclusi non solo dai colloqui ma dal patto di tregua per cui le operazioni militari contro di loro continuano. Anche i curdi, che nel nord est del Paese combattono per la loro sopravvivenza e si sono fin qui dimostrati efficaci nella lotta contro il Califfato, sono stati esclusi dal tavolo negoziale e, come vedremo, hanno reagito con una dichiarazione di indipendenza che non potrà non influire sui destini di tutto lo scacchiere siro-iracheno e turco.

Sta per nascere il Kurdistan siriano

Il 14 marzo la situazione si è arricchita di un’improvvisa e importane novità: il presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, ha annunciato, sorprendendo tutte le cancellerie occidentali, l’inizio del progressivo disimpegno russo dalla guerra civile siriana, dopo circa sei mesi di coinvolgimento diretto nelle operazioni contro i ribelli, un coinvolgimento che ha sicuramente scongiurato il collasso politico e militare delle forze che sostengono Assad. Con un comunicato soppesato parola per parola, Putin ha chiarito che i russi non abbandonano il campo ma ritireranno per il momento solo alcune parti del contingente (soprattutto truppe di terra e consiglieri), mantenendo il controllo del porto strategico di Tartus e delle basi aeree di Latakia e di Hmeymin.

 Le battaglie per Palmira e Raqqa
Al momento la tregua sembra reggere sul terreno e le operazioni, alle quali dovrebbero partecipare anche i jet americani, contro ISIS e i qeadisti di Jabhat Al Nusra sembrano procedere bene al punto che le forze lealiste sono in procinto di liberare il sito archeologico di Palmira, dichiarato dall’UNESCO “patrimonio dell’umanità” e devastato in modo “sacrilego” dai miliziani del Califfato.

La liberazione di Palmira non avrebbe soltanto un forte significato simbolico per Assad (come del resto è accaduto per la sua perdita) ma consentirebbe di isolare la città di Raqqa – che da più di un anno e mezzo è di fatto la “capitale” dell’ISIS del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi – dai collegamenti con l’Iraq condannandola a un assedio militarmente insostenibile.

 

Come valutare il ritiro delle truppe russe
Gli osservatori internazionali, ma anche molti analisti russi, sono stati colti di sorpresa dall’annuncio del ritiro delle truppe russe e dalle motivazioni che ci sarebbero dietro. C’è chi vede il “bicchiere mezzo vuoto” dal punto di vista russo e parla di costi ormai insostenibili per l’economia russa, già stremata dalle sanzioni per l’intervento in Crimea e per il crollo dei prezzi del petrolio. E chi, al contrario, sottolinea il concetto di “missione compiuta”: intervenedo militarmente, infatti, Putin non soltanto ha salvato Assad, ma ha fatto svanire le mire turche di egemonia regionale e fatto della Russia il principale agente di influenza nella regione relegando gli Stati Uniti a un ruolo marginale di confuso e disorientato spettatore.

Il direttore del think tank moscovita molto vicino alla linea ufficiale del Cremlino Russian International Affairs Council, Andrey Kortunov, ha dichiarato che forse una delle ragioni del ritiro annunciato potrebbe essere fatta risalire alla volontà di “superare l’ostinazione di Assad che potrebbe minare le basi per un accordo di pace e quindi rivelarsi contraria agli interessi russi nella regione”. Per tutta risposta il portavoce di Putin ha negato che Mosca intenda “esercitare pressioni su Assad”. In realtà, secondo la testata online Lenta, un serbatoio di analisi geopolitiche notoriamente finanziato dal Cremlino, la mossa di Putin vuole soltanto “dimostrare che Mosca è intervenuta per salvare la Siria dal collasso ma che non vuole vincere una guerra non sua e intende anche sottolineare che i russi non sono più siriani dei siriani”.

 Quale che sia la verità, è un dato di fatto che la tregua al momento sembra reggere: sono stati liberati fisicamente dal controllo jihadista oltre 3.000 km quadrati di territorio e i convogli umanitari dell’ONU sono riusciti a portare soccorsi agli oltre 250.000 abitanti di città e paesi rimasti isolati o assediati dai ribelli negli ultimi due anni.

Gli effetti destabilizzanti della mossa dei curdi
Ma Mosca, comunque, non può ancora parlare di “missione compiuta”. Ieri, giovedì 17 marzo, i miliziani curdi siriani del PYD (Partito dell’Unione Democratica Siriana Curda) che per primi hanno lottato contro l’infiltrazione di ISIS nella fascia nord orientale della Siria, area di importanza strategica perché confina con Turchia e Iraq, hanno votato insieme a delegati di molte città e comunità regionali curde, arabe e assire (tra cui le città di Kobane, Jazira e Afrin) la creazione di una “Federazione Autonoma Curda nel nord della Siria”.

Si tratta di un’iniziativa che ha colto tutti di sorpresa: il portavoce del ministero degli Esteri siriano si è affrettato a dichiarare che il governo di Damasco si opporrà a qualunque iniziativa che “minacci l’unità della Siria […] la creazione di una struttura federale è contraria alla Costituzione”. Anche i rappresentanti della Siryan National Coalition, che raggruppa i principali gruppi di opposizione anti-Assad, hanno tenuto a sottolineare la loro opposizione all’iniziativa curda perché “contraria alla volontà del popolo siriano”.

 Mancano ancora prese di posizione ufficiali russe e turche. Un fatto è certo: l’iniziativa indipendentista curda rischia di far vacillare la tregua di Ginevra e rappresenta una grave minaccia per Ankara che vede nella costituzione di uno Stato curdo siriano, potenzialmente federato con il Kurdistan iracheno, l’embrione per la nascita di quello Stato nazionale curdo che da sempre rappresenta il peggiore incubo dei governanti turchi, per l’irresistibile attrazione che eserciterebbe nei confronti dei milioni di curdi-turchi che mal sopportano di vivere nei confini della Turchia. La mossa del PYD introduce una nuova variabile nel conflitto siriano, che potrebbe costringere Ankara ad aumentare il suo impegno sul terreno e a riaccendere il confronto diretto con Mosca, con conseguenze al momento imprevedibili.

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Alfredo Mantici