Spotify, noi scarichiamo musica e loro guadagnano così
Economia

Spotify, noi scarichiamo musica e loro guadagnano così

L'accesso è gratuito ma tutto è costruito per spingerti a pagare. Lo fanno già in 5 milioni ma i conti della compagnia svedese ancora non tornano per il costo dei diritti

Noi ascoltiamo tutta la musica che vogliamo. E loro guadagnano. O almeno incassano, per il momento. Perché Spotify, il servizio di streaming musicale on demand appena arrivato in Italia , sembra che finora non abbia visto utili. La compagnia svedese non comunica dati ma gli analisti americani l’hanno messa sotto osservazione e nello scorso autunno un sito ha rivelato i numeri del 2011: 59 milioni di dollari di perdite su 245 di ricavi. E non sarebbe andata diversamente nei tre anni precedenti.

Ma allora Daniel Ek e i suoi sono matti e stanno andando verso il baratro senza rendersene conto? Per nulla, perché il modello di business richiede tempo e l’andamento di diverse voci mostra segnali incoraggianti. Spotify è un cosiddetto servizio Fremium, in parte gratis (free) e in parte a pagamento (premium). Per ascoltare la musica dal tuo pc senza pagare nulla ci pensa la pubblicità. Se non vuoi interruzioni fastidiose o vuoi avere le tue playlist anche sullo smartphone paghi tu (4,99 o 9,99 euro). I fan sono già 20 milioni nel mondo ma a pagare sono circa un quarto. E costituiscono la principale fonte di ricavo perché la pubblicità ha ancora una parte insignificante (non dichiarata, ma dovrebbe aggirarsi intorno al 10%).

Quindi è decisivo il tasso di conversione: cioè quanti degli utenti free diventeranno paganti. Era circa il 10% nei primi anni, adesso la compagnia dichiara il 20%. Ovviamente quanto più alta è la base quanto più significative sono queste percentuali. Quindi il primo obiettivo resta imbarcare il più alto numero possibile di sottoscrittori. Offrire loro la musica, che poi diventa playlist, che poi diventa relazioni con gli amici di Facebook ma anche con gli artisti. A quel punto, dopo che si è investito tempo, si stabilisce quella che gli analisti americani hanno definito una “emotional connection” e diventa alta la probabilità che l'utente si decida a pagare un abbonamento mensile. Insomma, diventi dipendente.

«La nostra strategia è portare la musica ovunque», spiega la manager italiana Veronica Diquattro, che anticipa un accordo con Samsung per le smartv. E lascia intendere che a Stoccolma stanno già pensando alle connected car, le auto collegate a Internet. Insomma Spotify punta ad allargare la platea ma anche a diventare la nostra colonna sonora permanente e pervasiva. Solo così potrà sostenere i costi, che sono essenzialmente quelli dei diritti d’autore pagati agli artisti e alle case discografiche. Non si conoscono i dettagli degli accordi, non si sa quindi se le royalty sono riconosciute in base al numero degli iscritti o agli ascolti effettivi. Negli Stati Uniti si dice però che su ogni dollaro incassato Spotify ne paghi 98 centesimi per i diritti. Sembrerebbe insostenibile se non fosse che il costo dei diritti tende a crescere con un ritmo molto più tranquillo di quello dei ricavi e quindi le perdite incidono sempre meno: rappresentavano il 147% del fatturato nel 2009 e sono diventate il 42% nel 2010.

Insomma Spotify punta tutto sul contagio. E sul fatto di diventare un canale di distribuzione, costruito sull’accesso e non sulla vendita, indispensabile per l’industria musicale. E quando ci riuscirà sarà too big to fail.

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Giovanni Iozzia

Ho lavorato in quotidiani, settimanali e mensili prevalentemente di area economica. Sono stato direttore di Capital (RcsEditore) dal 2002 al 2005, vicedirettore di Chi dal 2005 al 2009 e condirettore di PanoramaEcomomy, il settimanale economico del gruppo Mondadori, dal 2009 al maggio 2012. Attualmente scrivo su Panorama, panorama.it, Libero e Corriere delle Comunicazioni. E rifletto sulle magnifiche sorti progressive del giornalismo e dell’editoria diffusa.  

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