Si fa presto a dire plastic-free
EPA/JERRY LAMPEN
Economia

Si fa presto a dire plastic-free

Dai cotton fioc alle posate monouso, una serie di prodotti verranno realizzati con nuovi materiali ecologici. Ma la guerra contro la plastica sarà lunga

«Voglio dirti solo una parola, ragazzo. Solo una parola». «Sì, signore». «Mi ascolti?». «Sì, signore». «Plastica». Pausa. «Credo di non avere capito, signore». «Plastica, Ben. Il futuro è nella plastica».
Da quando è montata in tutto il mondo la campagna contro la plastica, non riesco a togliermi dalla mente questa scena del film «Il laureato»: siamo nel 1967 e a dare una dritta al giovane Dustin Hoffman appena uscito dal college è un amico del padre. La previsione si è rivelata corretta. Fin troppo. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta schiere di scienziati sono riusciti a sviluppare una serie di materiali straordinari derivati dal petrolio chiamati polietilene, polipropilene (inventato dal premio Nobel Giulio Natta nel 1954), polistirolo, Pvc, Pet (brevettato nel 1973). La plastica si è insinuata dappertutto, nell’arredamento, nell’edilizia, nei computer, nelle auto, negli aerei, nei vestiti, negli imballaggi, perfino nei bicchieri di carta, nelle sigarette, nei cosmetici e nei dentifrici. I materiali in plastica sono fantastici perché possono assumere qualsiasi forma, sono elastici o rigidi a seconda delle necessità, hanno una buona resistenza meccanica, proteggono gli alimenti, sono leggeri e costano poco. Talmente poco da aver creato un’intera generazione di prodotti usa-e-getta: come i bicchieri, le bottiglie o il rasoio monouso, lanciato nel 1971. Il risultato è stato un aumento vertiginoso della produzione: l’ultimo rapporto realizzato dal Wwf sull’argomento ricorda che dal 1950 la plastica vergine uscita dagli stabilimenti petrolchimici è cresciuta di 200 volte, raggiungendo nel 2016 quota 396 milioni di tonnellate. Secondo le previsioni, la produzione di plastica potrebbe ulteriormente aumentare del 40 per cento entro il 2030.

Una grande invenzione

La plastica è un materiale stupendo, ma ha un grande difetto: non è facile da riciclare. Mentre la carta, il ferro o l’alluminio possono essere riutilizzati molte volte, la plastica si degrada, una bottiglia di Pet non può essere usata per farne un’altra. E se anche si riesce a ritrasformare un rifiuto di plastica in materia prima, il suo prezzo non sempre è competitivo. E così oltre il 75 per cento di tutta la plastica prodotta nel mondo è già divenuta un rifiuto. Dei 7 milioni di tonnellate di plastica consumati ogni anno in Italia, 2,2 servono per gli imballaggi e di questi più del 40 per cento non si riesce a riutilizzare.
Il sistema della raccolta dei rifiuti fatica a gestire questa enorme quantità di immondizia di plastica, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. E molta finisce nell’ambiente. Ogni anno vengono riversati negli oceani tra i 4,8 e i 12,7 milioni di tonnellate di plastica. Fino a qualche tempo fa nessuno vi prestava molta attenzione. La notizia che nella pancia di una balena c’erano 40 chili di sacchi di plastica (come in quella trovata nelle Filippine il 18 marzo scorso) non sarebbe finita neppure sui giornali locali. Ma poi gli scienziati hanno scoperto alcune cose che hanno scioccato l’opinione pubblica. La presenza negli oceani di gigantesche isole galleggianti formate da immondizia: ce ne sarebbero addirittura otto, la più vasta delle quali grande tre volte la Francia. Nelle università ci si è interessati sempre di più al fenomeno dell’inquinamento da plastica rivelando che i sacchetti di plastica uccidono fino a un milione di uccelli marini ogni anno e 100 mila mammiferi acquatici. Poi la ricerca si è rivolta verso le microplastiche, e si è scoperto che finiscono addirittura nell’acqua che beviamo.
Tanto basta per provocare una vera e proprio psicosi globale. Seattle ha vietato le cannucce di plastica, San Francisco le bottigliette di plastica negli edifici pubblici, Milano ha varato una campagna contro la plastica monouso. Da anni la McDonald’s ha eliminato le confezioni di polistirolo e presto interverrà su cannucce e coperchi in plastica. L’Italia, grazie alla pressione dell’associazione Marevivo, è la prima nazione in Europa ad aver decretato da quest’anno lo stop ai cotton fioc in plastica e dal 2020 alle microplastiche nei cosmetici e nei prodotti per l’igiene personale. E l’Europa ha deciso che dal 2021 sarà vietato il consumo di posate, piatti, cannucce, bastoncini per palloncini, che costituiscono il 70 per cento dei rifiuti marini. Secondo il Wwf, la messa al bando della plastica monouso potrebbe ridurre la domanda di plastica del 40 per cento entro il 2030.

Carta e bioplastiche

Ma è possibile fare a meno della plastica? Riusciranno la giovane attivista svedese Greta Thunberg e tutte le associazioni che si battono per uno sviluppo sostenibile a farci vivere in un mondo plastic-free? Non è semplice. Angelo Bonsignori, direttore generale della Federazione Gomma e Plastica della Confindustria (che ha promosso per venerdì 5 aprile 2019, a Milano, la Prima conferenza nazionale sul futuro sostenibile delle plastiche), vive questa campagna come una minaccia che mette in pericolo un’industria fatta da 5 mila aziende con 120 mila dipendenti, e in particolare le 30 imprese specializzate in stoviglie monouso: «Gli allarmi sono giustificati solo in parte, occorre certamente ridurre i consumi di prodotti usa-e-getta ma bisogna anche migliorare la raccolta dei rifiuti, permettere che se ne occupino i privati dove i Comuni non ce la fanno».
Però le alternative alla plastica stanno avanzando molto più velocemente di quanto mi aspettassi. E l’Italia è particolarmente avanzata in questo campo. I produttori di carta e cartoni (un materiale che ha sette vite, si ricicla all’80 per cento e alla fine diventa un rifiuto compostabile) hanno sviluppato soluzioni che sostituiscono il polistirolo negli scatoloni o la plastica nei contenitori per trasportare le bottiglie, hanno creato le buste per i tortellini, per il fresco e anche sacchetti per la raccolta dell’umido.
Ancora più sorprendente il boom delle bioplastiche ottenute dagli scarti delle lavorazioni agricole e dalla polpa di cellulosa. Poiché l’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo ad aver organizzato fin dagli anni Novanta la raccolta dei rifiuti umidi, ha favorito lo sviluppo di materiali compostabili o per i sacchetti (come il MaterBi della Novamont). Così è nata un’industria che produce sacchetti, ma anche posate, piatti, bicchieri, cialde per il caffè, tutti compostabili: perfino film trasparenti tipo polietilene e bioplastiche da accoppiare alla carta e da inserire nei sacchetti per alimenti e nei bicchieri. O i materiali biodegradabili creati dalla Bio-On per la cosmesi o l’industria automobilistica. «Oggi il settore vale circa 650 milioni di fatturato» dice Marco Versari, presidente di Assiobioplastiche, «ed è formato da 150 aziende». Che crescono ad alta velocità. Come la Fabbrica pinze Schio (Vicenza) che ha creato la linea di produzione di posate Eco Zema e che vede il suo fatturato aumentare quest’anno del 40 per cento. I prezzi delle stoviglie in bioplastica sono ancora alti, ma stanno diminuendo molto rapidamente. Oggi in Italia circa 200 mila studenti pranzano ogni giorno in piatti compostabili, Milano Ristorazione usa solo stoviglie in MaterBi. E una società di co-working, come la milanese Copernico, nei suoi ristoranti utilzza esclusivamente bicchieri in vetro, piatti in carta e legno e posate in bioplastica. «Costano il 15-25 per cento in più» ammette Alessio Banfi, amministratore di Copernico and Friends, «ma sono coerenti con la filosofia della nostra azienda».
Insomma, i numeri sono ancora piccoli, ma sembrerebbe che sui prodotti usa-e-getta la strada intrapresa, almeno in Occidente, sia quella giusta. E forse riusciremo a rallentare l’invasione di rifiuti di plastica. Ma l’altra notte in sogno mi è apparso un tizio barbuto che mi diceva: «Stai attento, guarda che anche il compost ha i suoi problemi. E se laviamo tutto in lavastoviglie che succede ai consumi di acqua?».
Vabbè, una psicosi per volta, per favore.

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Guido Fontanelli