Le opposte malattie di Italia e Germania
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Economia

Le opposte malattie di Italia e Germania

L’Italia ha deluso sulle riforme. E la Germania non accetta di subire lezioni

E se la chiave di tutto fosse nella catena di valore della Bmw? Sì, la chiave per capire la potenza industriale tedesca, il suo ruolo nell’economia globale, il primato in Europa... Detto così sembra un esercizio da business school. Introdotto nel 1985 dal guru americano Michael Porter per giudicare l’efficienza competitiva, il modello analizza le componenti del prodotto e calcola il valore aggiunto in ogni fase lavorativa. Ebbene, vivisezionando la Bayerische Motoren Werke si scopre che solo metà di una vettura è made in Germany.

I freni sono italiani, della Brembo. I cambi, progettati dalla tedesca Getrag, vengono fabbricati a Brindisi. I compressori in Giappone. Parti decisive dei motori negli Stati Uniti. Secondo le cifre ufficiali, il 17,3 per cento dei fornitori si trova in Europa occidentale, il 14,8 in quella centrale e orientale, il 13,4 in Nord America. In patria resta soprattutto il valore cosiddetto immateriale, dalla progettazione al marchio. E questo basta, garantisce qualità, consente di tenere alti prezzi e profitti. Proprio come alla Apple. E in fondo una Bmw sta all’industria dell’auto come l’iPhone a quella dei telefonini. La leggendaria meccanica tedesca, insomma, non è più solo tedesca: tutta la grande manifattura occidentale segue lo stesso paradigma sovranazionale, eppure al made in Germany non si resiste. Per Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, l’attivo della bilancia commerciale messo sotto tiro dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti non è altro che «la conseguenza della maggior competitività della nostra industria». Nella media degli ultimi tre anni è arrivato al 6,5 per cento del pil, ma verso l’area euro il sovrappiù si è dimezzato.

La Germania non fa da locomotiva? Falso, replica la banca centrale, ha trascinato verso l’alto anche le esportazioni italiane che hanno chiuso settembre, ultimo mese stimato, con una crescita tendenziale del 2 e un guadagno mensile dello 0,6 per cento. L’attacco per abuso di export, perciò, sembra a Berlino non solo ingiusto, ma insensato. «L’Europa non diventa più forte se noi ci indeboliamo» protesta il portavoce di Angela Merkel. E poi tutto questo riguarda il passato, perché le cose stanno cambiando. Il Consiglio economico che avvisa governo e parlamento prevede, nel suo ultimo rapporto, che la crescita del 2014 sarà tirata dalla domanda interna e non più dalle esportazioni.

Tanto rumore per nulla? «No, siamo diventati un problema per l’intera economia mondiale» sostiene Peter Bofinger, uno dei cinque saggi, che ha messo per iscritto il suo dissenso. È l’unico keynesiano nell’esclusivo club di sapienti e si deve a lui l’idea di un salario minimo cavallo di battaglia della Spd (e che probabilmente Merkel dovrà accettare in cambio dell’appoggio al governo di Grande coalizione). Il professore, dunque, si trova in sintonia con le critiche del Fondo monetario internazionale e dell’amministrazione Obama. Ma non è solo un conflitto dottrinario. Persino un monetarista come Hans-Werner Sinn, presidente dell’istituto di ricerca Ifo e implacabile critico dell’euro, sostiene che un attivo con l’estero pari a 7 punti di pil «è malsano». È tornato, insomma, il mercantilismo come nell’era Bismarck. Con esiti paradossali: «Se tutti noi puntassimo solo sulle esportazioni, alla fine a chi venderemmo le nostre merci, ai marziani?» ironizza l’economista americano Brad DeLong, fiero avversario dell’«austerità espansiva» teorizzata da Alberto Alesina. Una cosa è certa: mai nell’ultimo decennio la Germania si è sentita tanto attaccata e tanto isolata. E a questo punto è più difficile gettare sotto il tappeto la polvere che ricopre il Modell Deutschland, come è avvenuto in passato.

Le resistenze all’unione bancaria mascherano le difficoltà delle banche tedesche: la numero uno, la Deutsche Bank, è strapiena di derivati e titoli tossici; la numero due, la Commerzbank, è stata salvata dal governo che non riesce a rivenderla; gli istituti locali sono sull’orlo del fallimento anche se la ripresa ha dato loro un po’ d’ossigeno. Persino l’industria elettrica è a pezzi sotto l’effetto perverso degli incentivi pubblici per il fotovoltaico, il vento e le rinnovabili. Clamoroso esempio di errore politico: Merkel ha lisciato il pelo ai Verdi, a cominciare dal blocco delle centrali nucleari, creando così una vera crisi energetica.

La Commissione europea ha bacchettato la legge di stabilità, sebbene il bilancio pubblico sia in pareggio. Rimprovera a Berlino di non aver applicato la stessa regola nei Länder, che sono il vero tallone d’Achille. La pressione fiscale resta troppo alta, la spesa sanitaria continua a salire in un paese sempre più vecchio, e a tutto ciò s’aggiunge la questione retributiva. Bofinger parla senza mezzi termini di dumping salariale e dà ragione ancora una volta agli Usa. È l’equivalente di una svalutazione, si produce con un costo del lavoro ridotto e si vende all’estero a prezzi più elevati.

S’è fatto sentire anche Enrico Letta: «Se restate forti da soli, rimarrete in un deserto» ha proclamato. Venerdì 22 novembre vola di nuovo a Berlino. La prima visita, il 30 aprile scorso, fu tutta sorrisi e cortesie, adesso deve convincere il cancelliere che il governo italiano sta in piedi anche dopo la frattura del Pdl e che le critiche rivolte dall’Unione Europea alla legge di stabilità italiana sono esagerate. Sia la Kanzlerin sia i partiti della grosse Koalition «non hanno nulla da offrire e molto da chiedere» sintetizza una fonte della diplomazia italiana.

Non sono più rose e fiori nemmeno con il presidente della Bce, Mario Draghi, sul quale piove l’accusa di tenere i tassi troppo bassi per aiutare i paesi in difficoltà, Italia in primis. Quanto alla conferenza sulla disoccupazione giovanile che Roma vuole realizzare l’anno prossimo (quando assumerà la presidenza di turno della Ue), è come la canzone di Mina: parole, parole, soltanto parole. Con una crescita inferiore all’1 per cento non si creano nuovi posti di lavoro.

Sulla politica europea prevale la linea conservatrice anche fra i socialdemocratici. Niente eurobond, nessuna possibilità che i debiti pubblici vengano messi in comune. No anche al fondo di riscatto. L’idea era venuta dai cinque saggi e prevede che confluisca in un European redemption fund (Erf) l’importo dei vari debiti pubblici degli stati dell’eurozona superiore al 60 per cento del pil; gli stati garantiscono attraverso i loro asset pubblici e una percentuale di tasse. Non ci sarebbe bisogno di riformulare i trattati, l’Italia pagherebbe interessi più bassi, ma la Germania teme di doversi sobbarcare costi maggiori rispetto agli attuali. In campagna elettorale la Spd ha sostenuto la proposta, ma alla fine ha piegato la testa. Altro che gioco di sponda tra i partiti di sinistra, è roba buona solo per i comizi. A Letta l’invincibile Angela chiede un taglio più coraggioso della spesa pubblica e la riforma del mercato del lavoro. Qui davvero la Germania ha una lezione da impartire.

Il tasso di disoccupazione è sceso al 5,2 per cento, la Ue è a quota 12,2, l’Italia al 12,5. Anche la tassazione sul lavoro e sulle imprese è inferiore e tutto ciò è dovuto alle riforme decise nel 2003 dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder. I cinque saggi (su questo sono tutti d’accordo) temono passi indietro, per esempio riducendo la flessibilità, promettendo assunzioni a tempo indeterminato e concedendo troppe eccezioni al nuovo limite di 67 anni per l’età pensionabile.

Ma l’Agenda 2010 (le riforme di Schröder approvate dal parlamento tedesco nel 2003) resta un punto fermo. Così come i contratti aziendali che hanno accettato la riduzione dei salari e l’aumento delle ore lavorative per difendere i posti di lavoro.

Nella catena di valore della Bmw, infatti, entrano a pieno titolo sia l’atteggiamento dei sindacati sia una magistratura del lavoro che svolge una funzione di arbitro: lo scopo è stabilire il rispetto delle regole, lasciando pieno spazio ai rapporti contrattuali fra le parti. Vuoi vedere che il modello tedesco, con la sua cogestione e i tanti orpelli indossati dalla madre di tutte le socialdemocrazie, è più liberale di quello italiano?

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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