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(Ansa)
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Trump colpevole: La tempesta perfetta sul Partito Repubblicano

La condanna del tycoon nel processo Stormy Daniels crea un precedente senza pari nella storia USA

Stormy in inglese significa «tempestosa» e c’è da credere che qualche turbolenza in queste ore abbia davvero investito il partito Repubblicano degli Stati Uniti, sempre più stretto intorno al leader Donald Trump, investito per l’appunto dalla tempesta giudiziaria che lo vede primo tra i presidenti americani nella storia a essere stato condannato da un tribunale. Per giunta, in relazione a una vicenda piuttosto scabrosa, che coinvolge una pornostar cui è stato ceduto del denaro per non testimoniare circa le scappatelle del tycoon.

Non solo Trump è il primo ex presidente a essere giudicato colpevole di un reato, ma è anche il primo candidato alla presidenza di un grande partito a essere condannato per un crimine nel bel mezzo della campagna per la Casa Bianca. E se a novembre sconfiggerà Joe Biden, sarà il primo presidente in carica della storia a essere condannato per un reato.

Una giuria di Manhattan ha infatti dichiarato Donald Trump colpevole di tutte le 34 accuse di falsificazione di documenti, un verdetto storico e senza precedenti. Il procuratore distrettuale di Manhattan Alvin Bragg, democratico, aveva annunciato l’anno scorso di avere incriminato l’ex presidente con l’accusa di aver falsificato il rimborso del suo ex avvocato Michael Cohen per coprire un pagamento di 130 mila dollari che Cohen aveva poi girato alla star di film per adulti Stormy Daniels, al fine diimpedirle di rivelare la presunta relazione tra lei e Trump prima delle elezioni del 2016.

Trump ovviamente ha sempre negato la relazione e, ascoltata la condanna, ha dichiarato dopo aver lasciato l’aula: «Questo processo è stato truccato ed è vergognoso. Il vero verdetto sarà il 5 novembre, da parte del popolo, loro sanno cosa è successo qui e tutti sanno cosa è successo qui oggi», attaccando poi sia il giudice che presiede il caso sia il procuratore che lo ha portato avanti. «Non abbiamo fatto nulla di male. Sono un uomo molto innocente» ha chiosato di fronte ai microfoni della stampa in sollucchero, promettendo che la lotta continua.

Cosa succede adesso? Intanto, la condanna di Trump per tutti i capi d’accusa nel suo primo processo penale riafferma un principio su cui si fondano gli Stati Uniti, e cioè che tutti i cittadini americani sono uguali di fronte alla legge e che nessuno, nemmeno un miliardario ex (e forse futuro) presidente, gode dell’impunità. Il che sarebbe una buona notizia, se non fosse che lo sfogo autoritario di Trump pochi minuti dopo il verdetto di colpevolezza e la corsa dei principali repubblicani a unirsi al suo attacco al sistema giudiziario, sottolineano già «quanto questi valori fondamentali siano ora minacciati» come ha scritto l’analista Stephen Collinson.

In effetti, gli Stati Uniti sono profondamente divisi tra due visioni dell’America del tutto diverse e distanti, con le ali estreme dei partiti e le rispettive correnti che in Europa definiamo «extraparlamentari» sempre più protagoniste e inclini alla violenza: da un lato il «popolo di Trump» ovvero la destra radicale con i suoi suprematisti, i seguaci di teorie complottiste, le milizie armate indipendentiste e anti-Stato; cioè per capirsi, coloro che hanno dato l’assalto al Congresso degli Stati Uniti il 6 gennaio 2021. Dall’altra, la sinistra non già progressista ma soprattuttoradicale: quella della cancel culture, del #metoo, degli studenti pro Palestina che occupano le università, dei Black Lives Matteragguerriti e armati; e ancora, di coloro che si dichiarano marxisti e socialisti, che hanno fatto breccia nella mente delle nuove generazioni che si affacciano per la prima volta alla politica americana.

Certo, i due candidati alla presidenza non hanno dato grande prova di sé e di comprensione delle istanze dell’elettorato americano, se la restituzione è quella di un popolo che si divide trale metropoli democratiche e le campagne repubblicane, tra la rust belt degli operai disillusi e le città sconvolte dalle proteste razziali, e che ha fatto della culla della democrazia un Paese polarizzato e pericoloso a se stesso, in un clima da guerra civile a bassa intensità.

«Cosa è cambiato in questi ultimi anni?» riflette Federico Leoni, autore di due saggi seminali sugli Usa contemporanei, Fascisti d’America e America Contro: «Molto è cambiato, ma non la sostanza. La pandemia ha mollato la presa, sono scoppiate un paio di guerre, Trump è finito al centro di vicende giudiziarie che per paradosso (ma non sorprendentemente) lo hanno avvantaggiato nelle primarie. Ormai nel partito repubblicano per battere Trump devi essere più a destra di Trump, e anche questo potrebbe non bastare. Certo l’estremismo è utile alle primarie ma controproducente nelle elezioni generali, ma come ci arrivi alle elezioni generali se prima non conquisti la base?» Oggi, riflette ancora Leoni, «per ottenere la maggioranza devi piacere a una minoranza: è una delle tante contraddizioni in cui si avvita la politica americana, e a pagarne le conseguenze sono i tanti cittadini moderati che esistono ancora, ma la cui voce è sopraffatta dalle urla degli estremisti».

Già, gli estremisti. Ma che accade se i primi estremisti sono proprio i vertici dello Stato? Come insegna la storia tormentata tra il quattro volte presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi e la magistratura italiana, non possono essere i giudici a tenere fuori le persone dalla politica. E, almeno di questo, i democratici sono consapevoli: «C'è un solo modo per tenere Donald Trump fuori dallo Studio Ovale: alle urne. Condannato o meno, Trump sarà il candidato repubblicano alla presidenza», ha dichiarato il direttore della comunicazione della campagna dem, Michael Tyler. «La minaccia che Trump rappresenta per la nostra democrazia non è mai stata così grande» ne è convinto lo stesso Joe Biden, che tuttavia riconosce al suo avversario che il giudizio definitivo sull’ex presidente arriverà solo con le elezioni generali.

Quando in Italia nell’estate del 2009 il caso dell’ex escort Patrizia D’Addario finì al centro di una inchiesta della Procura di Bari su un giro di prostituzione messo in piedi dall’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini, che avrebbe accompagnato giovani ragazze nelle residenze dell’ex premier Silvio Berlusconi, la sentenza per falsa testimonianza (che lambì solamente il presidente) portò paradossalmente acqua al mulino di Forza Italia, con il governo che rimase in carica fino al novembre 2011 e non cadde certo per una condanna sulla sua condotta morale ma piuttosto per ragioni economiche e finanziarie, e questo nonostante molti altri guai giudiziari ben più rilevanti che riguardavano il premier.

Così oggi Donald Trump, che alla prima occasione ricorrerà in appello (i suoi avvocati hanno 30 giorni di tempo per presentare la richiesta di appello e 6 mesi per presentare l’appello al completo), non rischia certo di finire azzoppato alle urne per una vicenda squallida come il pagamento di una escort via avvocato, né probabilmente il giudice dello Stato di New York - dove la pena prevista per il reato per cui è stato condannato Trump va dai 16 mesi ai 4 anni di carcere – lo costringerà a un periodo in prigione:è molto più probabile che il candidato repubblicano dovrà passare per la libertà vigilata e gli arresti domiciliari, dato che è un incensurato uomo di 77 anni. O addirittura la pena sarà sospesa in attesa dell’appello.

Lo sapremo a luglio, ma intanto questa storica sentenza offre un possibile vantaggio a Donald Trump: quello di dichiararsi vittima di un sistema che vuole mettere a tacere la voce del «suo» popolo. E, di solito, come la saga giudiziaria di Berlusconi insegna, questo ha molta presa nel corpo elettorale. Il che significa che da un lato la condanna non sposta di un solo voto il giudizio degli americani sul loro ex presidente, dall’altro polarizza le parti politiche sempre di più, in attesa del grande giorno in cui l’America deciderà chi è degno di guidare la superpotenza verso il futuro. In entrambi i casi, anche questa mattina gli americani pensano più ai dati sull’inflazione che non ai guai giudiziari del presidente più odiato di sempre dopo Nixon.

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Luciano Tirinnanzi