Mahsa amini
(Ansa)
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Mahsa Amini, morta in un Iran oggi uguale ad un anno fa

Il 16 settembre 2022, esattamente un anno fa, l’iraniana di origine curda Mahsa Amini, veniva uccisa mentre era in custodia della polizia iraniana. Cinque giorni dopo avrebbe compiuto ventitré anni. La ragazza era stata arrestata dall’onnipresente polizia morale tre giorni prima per aver indossato male l’hijab visto che secondo la pattuglia era «troppo allentato». Mahsa Amini è morta a causa dell’emorragia cerebrale causata dalle torture della polizia iraniana. Il governo di Teheran ha sempre sostenuto che la ragazza, era in piena salute prima dell’arresto, è morta «a causa di una malattia», senza peraltro specificare quale. In realtà alcuni testimoni hanno raccontato che Mahsa Amini è stata ripetutamente picchiata dalla polizia e che avrebbe battuto violentemente la testa durante l’ennesimo interrogatorio.

La morte di Mahsa, in curdo Jina, è stata la miccia che ha fatto esplodere una delle proteste più importanti mai avvenute nella Repubblica islamica dell'Iran dalla sua costituzione nel 1979. Le autorità iraniane dirette dalla Guida suprema Ali Khamenei e dal presidente ultra-conservatore Ebrahim Raisi, accusato in passato di aver commesso gravi violazioni di diritti umani, visto che interrogava i prigionieri e ha ordinato centinaia di esecuzioni sommarie, hanno usato il pugno di ferro per soffocare le rivolte. I morti ammazzati dai Guardiani della rivoluzione, dai Pasdaran e dai Basiji, una forza paramilitare iraniana fondata per ordine dell'Ayatollah Ruhollah Khomeini nel novembre del 1979 e sono più di 600.

Migliaia gli arresti e non solo di manifestanti perché in carcere sono finiti intellettuali, giornalisti e oppositori politici. Lo scorso 1° settembre come denunciato da Amnesty International l’attivista Javad Rouhi, detenuto arbitrariamente per aver preso parte alle proteste dell'autunno 2022, è morto in carcere. Anche lui come Mahsa Amini «è stato ripetutamente sottoposto a tortura e altri gravi maltrattamenti. Sappiamo che è stato percosso e fustigato mentre era legato a un palo, sottoposto a scosse elettriche, esposto a temperature glaciali e molestato sessualmente per 48 ore». E solo qualche giorno fa Safa Aeli zio di Mahsa Amini è stato arrestato perché sospettato di voler organizzare proteste in occasione dell’anniversario della morte della nipote.

Il regime sta adottando tutte le misure per prevenire le proteste che commemorano la morte di Mahsa Amini e certamente reprimerà nel sangue le manifestazioni che si verificheranno. Durante tutta l’estate la repressione è aumentata anche nelle università, tanto che sono stati licenziati solo il 29 agosto almeno 10 professori. Il giro di vite sulle università è dovuto al fatto che gli studenti universitari hanno in gran parte guidato il movimento Mahsa Amini dello scorso anno. Il regime come racconta Critical Threats Project «ha inoltre istituito posti di blocco agli ingressi di varie città nella provincia del Kurdistan e ha dispiegato forze di sicurezza ed elicotteri nelle province del Kurdistan e dell’Azerbaigian occidentale. Circa il 21% delle proteste anti-regime tra il 16 settembre e il 22 dicembre 2022 si è verificato nelle province del Kurdistan e dell’Azerbaigian occidentale».

E l’Occidente? Non pervenuto o quasi. Dopo la morte di Mahsa Amini vi furono numerose prese di posizione tra le quali quella del Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella che l’11 gennaio 2023 dopo aver ricevuto al Quirinale il nuovo ambasciatore della Repubblica islamica dell'Iran, Mohammad Reza Sabouri, espresse «la ferma condanna della Repubblica italiana per la brutale repressione delle manifestazioni e le condanne a morte di molti dimostranti e il mio sdegno personale». Poi piano piano le proteste sono sparite dalle prime pagine dei giornali e i diplomatici iraniani hanno continuato a essere ricevuti con tutti gli onori in tutto il mondo, così come il regime ha continuato a fare affari con l’Occidente.

Tutto questo nonostante gli iraniani sostengono la Russia nella guerra con l’Ucraina inviando droni kamikaze Shahed 136 e altre attrezzature belliche alla Russia, e proseguono senza sosta i progetti terroristici contro lo Stato di Israele, sempre nel mirino delle organizzazioni terroristiche come Hamas e la Jihad islamica che sono finanziate da Teheran. Ma c’è di peggio perché lo scorso 12 settembre è stata diffusa la notizia della conferma dell’accordo tra l’amministrazione americana con il regime iraniano per il rilascio di 5 cittadini americani detenuti nel Paese, in cambio del trasferimento di 6 miliardi di dollari di fondi di Teheran congelati in Sud Corea e di 5 prigionieri iraniani. Il segretario di Stato Antony Blinken ha firmato l'esenzione dalle sanzioni per il trasferimento di fondi all'Iran, una deroga che sta facendo infuriare i repubblicani e gli israeliani che lamentano a giusta ragione che questo denaro non farà che aiutare l'economia iraniana in un momento in cui l'Iran rappresenta una minaccia crescente per le truppe statunitensi e gli alleati del Medio Oriente in primis lo Stato ebraico. Come scrive Sky Tg 24 «secondo l'accordo, il denaro, ricavato dalle entrate congelate delle passate vendite di petrolio iraniano, sarà inviato alla banca centrale del Qatar, da dove potrà essere erogato per l'acquisto di beni umanitari per l'Iran. Nell'ambito dei preparativi per l'accordo, il mese scorso quattro cittadini statunitensi detenuti dall'Iran sono stati trasferiti dal carcere agli arresti domiciliari. Il quinto detenuto era già agli arresti domiciliari».

La Casa Bianca ha negato che lo scongelamento di 6 miliardi di dollari di fondi iraniani per contribuire a garantire il rilascio di cinque cittadini statunitensi fosse effettivamente un pagamento di riscatto. «Questo non è un pagamento di alcun tipo. Non è un riscatto», ha affermato il portavoce della sicurezza nazionale della Casa Bianca John Kirby, respingendo con forza le critiche all’accordo.

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Stefano Piazza