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Miliziani dell'Uck in Kosovo il 14 maggio 1999 (Getty Images).
Dal Mondo

Le lezioni del Kosovo per l'Ucraina

È il convitato di pietra del conflitto ucraino: il termine di paragone dell'invasione russa di un Paese sovrano, ma anche la cartina al tornasole degli interventi militari a scopi umanitari. Fra similitudini e difformità, contraddizioni e paradossi, ecco come i raid aerei Nato di 23 anni fa hanno prefigurato la crisi che oggi sta sconvolgendo il mondo.

  • Le lezioni del Kosovo per l'Ucraina
  • Zannier: «Come il Kosovo, le autoproclamate repubbliche rischiano una sovranità limitata»
  • Angeli: «Evitare il più possibile le ambiguità»


Dopo il rinvenimento delle centinaia di cadaveri a Bucha, fra i primi a fare un parallelismo Ucraina/Kosovo è stato l'analista militare Gianandrea Gaiani. «Non dimentichiamo che c'è un precedente importante, che noi della Nato dovremmo ricordare bene» ha detto il 4 aprile a Panorama. «Nel 1999 noi andammo in guerra contro la Serbia nel 1999 sull'onda emotiva della strage di Račak. I raid aerei della Nato cominciarono in seguito a quella che venne presentata come una strage di civili (...). In realtà era stata costruita ad arte, sparando un colpo alla testa a persone che erano già morte».

Lo stesso giorno, un editoriale di Domani recitava: «In molti si chiedono se adesso la scoperta di queste uccisioni avrà per l’Ucraina un esito analogo a quello di episodi simili, come il massacro (...) di Račak in Kosovo, che contribuirono a dare il via all’intervento militare occidentale nell’ex Jugoslavia». E il 5 aprile su Antimafia compariva un'analisi intitolata «Strage di Bucha, ennesimo false flag?», in cui Francesco Ciotti argomentava: «È accaduto lo stesso per la guerra in Serbia nel 1999 con gli orrori della fossa di Račak: 44 civili inermi albanesi, della cui esecuzione furono subito additati i serbi e lo stesso Milosevic, allora presidente della federazione Jugoslava. Persino il Centro di intelligence americano Stratfor pubblicò un dossier in cui mise in dubbio l’esistenza di fosse comuni del Kosovo».

Già, il Kosovo. È il convitato di pietra del conflitto in Ucraina, il termine di paragone dell'invasione russa di un Paese sovrano, ma anche la cartina al tornasole degli interventi militari occidentali per scopi umanitari. Il 24 marzo 1999, la Nato, guidata dagli Stati Uniti, lanciò l'Operation Allied Force, una campagna di raid aerei contro la Repubblica federale di Jugoslavia del famigerato Slobodan Milosevic, che portò al ritiro delle Forze armate jugoslave dal Kosovo e, nove anni dopo, alla dichiarazione d'indipendenza dalla Serbia.

Sgombriamo subito il campo da eventuali malintesi: le differenze fra i raid aerei della Nato e l'invasione territoriale a opera del Cremlino sono innegabili. Nel 1999 le vittime civili in Serbia in tutto furono, secondo le stime più attendibili (Human Rights Watch e Humanitarian Law Center di Belgrado) fra 500 e 750. Quelle registrate in Ucraina fra il 24 febbraio e l'11 aprile erano già 1.842, secondo l'Alto Commissario per i Diritti umani dell'Onu. Per non parlare del livello di distruzione del Paese, con case, edifici pubblici e infrastrutture ridotte in macerie, innegabilmente più alto di quello prodotto dalla Nato nella ex Jugoslavia.

Ciò detto, la guerra in Kosovo è un altrettanto innegabile punto di riferimento per il conflitto in corso. Per le numerose similitudini, per le analogie speculari e per le altrettanto numerose contraddizioni. Ma soprattutto per le lezioni che l'intervento Nato di 23 anni fa nell'ex Jugoslavia può impartire all'Ucraina di oggi. «La guerra aerea di 78 giorni sul Kosovo e la Serbia è stata senza precedenti per diversi aspetti. È stata intrapresa senza la sanzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. È stata inquadrata, dai governi partecipanti e da gran parte dei media, come un intervento umanitario» ha scritto sul New Yorker Masha Gessenin un commento intitolato «Come la guerra aerea del Kosovo ha prefigurato la crisi in Ucraina». «È stata combattuta in un modo che non permetteva alcuna possibilità di vittime della Nato: gli aerei bombardieri inizialmente volavano al di sopra della quota alla quale potevano essere raggiunti dai missili antiaerei serbi».

Ma il Kosovo rappresenta un precedente anche per un'altra ragione, prettamente politica. «Il giorno dell'inizio della campagna, il 24 marzo 1999, Yevgeny Primakov, il primo ministro russo dell'epoca, si trovava in viaggio verso gli Stati Uniti, quando venne a sapere dei bombardamenti» ricorda l'ambasciatore Umberto Vattani, che al tempo era segretario generale alla Farnesina. «Dall'aereo, chiamò il vicepresidente Al Gore per implorarlo di annullare gli attacchi. Tre ore dopo, Gore richiamò per dirgli che gli attacchi erano inevitabili e che la Russia non aveva voce in capitolo. Il primo ministro ordinò allora al pilota di tornare a Mosca».

Si fa risalire a quell'inversione di rotta la nascita della dottrina Primakov. «È basata su tre principi» prosegue Vattani. «Primo: la Russia non avrebbe più accettato un mondo a guida americana. Secondo: avrebbe perseguito una collaborazione stretta con la Cina e l'India. Terzo: si sarebbe opposta all'espansione della Nato nello spazio post-sovietico, dove avrebbe avviato una politica più assertiva. Tale dottrina è così importante per il Cremlino che l'ex primo ministro russo è stato solennemente ricordato nell'ottobre 2019, quando VladimirPutin inaugurò una colossale statua a lui dedicata davanti al ministero degli Esteri».

Ecco perché è interessante analizzare i due eventi in parallelo e trarne le dovute lezioni. Cominciamo dal casus belli. In Kosovo i raid aerei cominciarono in seguito al massacro di Račak, presentato come una strage di civili perpetrata il 15 gennaio 1999 dalle forze speciali serbe. In Ucraina il confronto fra filo-occidentali e filo-russi (che portò alla destituzione del presidente Viktor Yanukovich) iniziò con il massacro di piazza Maidan, avvenuto fra il 18 e il 20 febbraio 2014 a Kiev, dove i colpi di misteriosi cecchini uccisero fra 50 e 100 poliziotti e manifestanti.

La ricostruzione di entrambi gli eccidi è stata oggetto di veleni, scontri, polemiche... Ma mentre su Račak la verità, sebbene non ufficiale, pare abbastanza evidente, su Maidan è ancora avvolta nel mistero, anche se sono emersi fatti inquietanti. In sintesi, la strage di Račak in Kosovo fu presentata come un massacro di civili dal capo missione Osce, il controverso ambasciatore americano William Walker, dagli inquietanti trascorsi in Nicaragua e in El Salvador. «Un diplomatico d'assalto» lo definisce il funzionario Onu Andrea Angeli, che in Kosovo ci ha passato sette anni.

In realtà, fin da subito erano emersi forti dubbi da parte degli investigatori sul fatto che i morti fossero civili. E oggi gran parte degli addetti ai lavori (ultimo il generale Fabio Mini, che sul Fatto quotidiano ha scritto di «fosse comuni allestite dalla Nato») sono convinti che sia stato una messa in scena allestita con cadaveri di miliziani dell'Uck. Significativo il fatto che, durante il processo a Slobodan Milosevic al Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia, «il massacro di Račak è stato aggiunto dai procuratori del Tribunale in un'accusa modificata», poi lasciato cadere. Come si legge sul sito del Tribunale, «in modo da "migliorare la speditezza del procedimento pur garantendo che esso rimanga equo"». Resta il fatto che i Paesi della Nato avevano usato Račak come pistola fumante per i raid aerei.

Più oscura la strage di Kiev. Dopo la decisione del governo di sospendere l'accordo di associazione e di libero scambio con l'Ue, a partire dal 21 novembre 2013 il movimento Euromaidan scatenò una serie di manifestazioni pro-europeiste. Le proteste proseguirono con vari episodi di violenza fino al 20 febbraio, quando nel corso della «rivoluzione della dignità» fra 50 e 100 persone persero la vita in piazza Maidan sotto i tiri di misteriosi cecchini.

Chi erano questi cecchini? L’opposizione anti russa, che andò al governo proprio dopo la deposizione di Viktor Yanukovych, incolpò le forze speciali del deposto presidente, accusandolo di aver mandato sniper a sparare sui manifestanti per soffocare la protesta in un bagno di sangue. Una ricostruzione che venne messa in dubbio fin da subito. Cinque giorni dopo il massacro, il ministro degli esteri estone Urmas Paet, al rientro da un viaggio a Kiev, riferì a Catherine Ashton, responsabile degli Esteri dell’Ue, un fondato sospetto che i cecchini potessero essere agenti provocatori ingaggiati dall'opposizione filo-europeista.

Un anno dopo, un professore dell'Università di Ottawa, in Canada, Ivan Katchanovski, presentò un'indagine basata su interviste, video e fotografie, intitolata «Il “massacro dei cecchini” a Maidan in Ucraina». Le conclusioni sono durissime: «Il massacro è stato una false flag operation, razionalmente pianificata e realizzata con l'obiettivo di rovesciare il governo e prendere il potere».

Una conferma a questa tesi viene dal giornalista Gian Micalessin, che il 6 maggio 2018 ha pubblicato sul sito Insideover un'inchiesta intitolata «Quelle verità nascoste sui cecchini di Maidan». L'indagine presenta le interviste effettuate con «Koba Nergadze e Kvarateskelia Zalogy due georgiani protagonisti e testimoni di quella tragica sparatoria e del successivo massacro» e con «Alexander Revazishvilli, un ex tiratore scelto dell’esercito georgiano protagonista della sparatoria di Maidan». Micalessin rivela che «tutti e tre i nostri protagonisti raccontano di esser stati reclutati alla fine del 2013 da Mamuka Mamulashvili, un consigliere militare di Saakashvili».

Il loro compito, ha spiegato Alexander Revazishvilli, «era organizzare provocazioni per spingere la polizia a caricare la folla» E ha aggiunto: «Un giorno intorno al 15 febbraio – rammenta Alexander – Mamualashvili visitò personalmente la nostra tenda. Con lui c’era un altro tipo in uniforme. Ce lo presentò e ci disse che era un istruttore, un militare americano». Micalessin ha spiegato che il militare americano si chiamava Brian Christopher Boyenger ed era «un ex ufficiale e tiratore scelto della 101esima divisione aviotrasportata statunitense». Koba Nergadze haaggiunto: «Eravamo sempre in contatto con questo Brian, lui era un uomo di Mamulashvili. Era lui che ci dava gli ordini. Io dovevo seguire tutte le sue istruzioni».

Già, le false flag operations... Le operazioni sotto falsa bandiera sono azioni politiche o militari condotte con l'intenzione di incolpare un avversario, mascherando l'effettivo responsabile. Per entrambi i casus belli qui analizzati, quello del Kosovo e quello dell'Ucraina, aleggiano sospetti che si possa essere trattato di false flag operations. E in tutti e due i casi ci sarebbero di mezzo degli americani.

Un altro filo conduttore fra i due conflitti è proprio il legame degli americani con organizzazioni ultra-nazionalistiche. «Così come gli ucraini hanno i consiglieri di Paesi Nato, in particolare americani, che da anni li preparano e li addestrano a combattere i russi, allo stesso modo l'Uck aveva i consiglieri americani che li rifornivano di armi, li aiutavano e li addestravano» osserva l'analista militare Gianandrea Gaiani, direttore della rivista AnalisiDifesa. E, così come gli Usa finanziavano l'Uck in Kosovo, ora finanziano i movimenti di estrema destra e neonazisti come Azov, Pravyi Sektor e Svoboda in Ucraina. «Finanziamenti alle milizie sì: un sostegno militare c'è stato sicuramente. Basti pensare che le forniture di armi occidentali, anche italiane, sono arrivate al reggimento Azov, che le sta impiegando. Un reporter Rai è andato a Kiev da quelli Pravyi Sektor, che gli hanno mostrato le armi italiane che avevano ricevuto: per esempio mitragliatrici MG della Beretta».

E pensare che, sia in Kosovo sia in Ucraina, fino a un certo momento gli Stati Uniti erano molto freddi nei confronti di questi movimenti. Anzi, gelidi. In un rapporto del Comitato politico repubblicano del Senato Usa del 1999, l'Uck venne definito un gruppo controverso, «legato a cartelli della droga e organizzazioni islamiche terroristiche». Il rapporto rivelava anche che, il 23 febbraio 1998, l'inviato speciale di Bill Clinton per il Kosovo aveva dichiarato: «L'Uck è, senza alcun dubbio, un gruppo terroristico». Ma, nel giro di un anno, Washington fece un'inversione a U. I «terroristi» divennero «partner», combattenti per la libertà. E, come risultato della guerra del 1999, il Kosovo finì in mano all'Uck. Il suo leader Hashim Thaçi divenne Primo ministro, Ministro degli Esteri e Presidente della Repubblica del Kosovo. Peccato che oggi sia sotto processo per crimini di guerra contro l’umanità al Tribunale dell’Aja.

Una simile parabola l'hanno conosciuta anche i gruppi di estrema destra e neonazisti in Ucraina. Nel 2015, mentre infuriavano i combattimenti nel Donbass, il governo degli Stati Uniti aveva posto un veto su qualsiasi aiuto materiale o finanziario all'Ucraina «per la milizia paramilitare neonazista ucraina "Battaglione Azov"». Il divieto fu revocato nel 2016, ma il Congresso lo ripristinò nel 2018. Il 27 marzo di quell'anno, sul sito The Hill comparve un articolo intitolato «Il Congresso vieta le armi a milizia ucraina legata ai neo-nazisti». «La legge di spesa omnibus da 1,3 trilioni di dollari stabilisce che "nessuno dei fondi resi disponibili da questo atto può essere utilizzato per fornire armi, addestramento o altra assistenza al Battaglione Azov"» si legge nell'articolo. «”La supremazia bianca e il neonazismo sono inaccettabili e non hanno posto nel nostro mondo” ha detto a The Hill il membro del Congresso Ro Khanna, un critico esplicito della fornitura di aiuti letali all'Ucraina. "Sono molto contento che l'omnibus recentemente approvato impedisca agli Stati Uniti di fornire armi e assistenza per l'addestramento al battaglione neonazista Azov che combatte in Ucraina"».

Oggi anche il battaglione Azov, ormai diventato reggimento, è celebrato come combattente per la libertà. E Mosca sostiene che le armi mandate da Joe Biden in Ucraina sono finite anche ad Azov. Certo è che, già nel 2018, il ricercatore di BellingCat Aric Toler twittava: «Ci sono già armi letali fatte negli Stati Uniti sulle linee del fronte in Donbass con il battaglione Azov». Il primo marzo scorso, The Dead District ha poi postato su Twitter la foto di un membro del battaglione Azov con in mano un missile Usa anticarro portatile Javelin. L'8 marzo, invece, Nexta tv ha twittato due foto di armamenti. Commento: «Un carico di lanciagranate NLAW e istruttori dai Paesi della #NATO è arrivato a #Kharkiv. Il reggimento Azov è stato il primo a conoscere le nuove armi».

Uck, Azov, Pravyi Sektor hanno un minimo comun denominatore: sono tutti ipernazionalisti. Come scrisse il Nobel per la letteratura serbo Ivo Andric, «il nazionalismo è un coltello piantato nella schiena dei popoli». Un coltello che ha una lama molto profonda. In Ucraina come in Kosovo, durante la seconda guerra mondiale vennero create divisioni SS composte da volontari locali: in Ucraina c'era la divisione Galizia, in Kosovo la divisione Skanderbeg. Motivo: gli ultranazionalisti kosovari e ucraini avevano visto i nazisti come liberatori, nella speranza che li aiutassero a realizzare il loro sogno indipendentista. «Perché Volodymyr Zelensky non ha avuto un grande successo in Israele?» osserva Gaiani. «Perché, benché lui dica che il nazista è Putin, tutti gli israeliani sanno che nell'Ucraina post golpe sono state erette statue al leader antisemita Stepan Bandera e che sono state intitolate strade a personaggi che hanno contribuito a sterminare e a deportare quasi 2 milioni di ebrei ucraini».

Sul passato che non passa abbiamo chiesto un commento ad Andrea Martocchia, segretario della Onlus «Coordinamento nazionale per la Jugoslavia», oggi coinvolto in «iniziative di solidarietà al Donbass e all'Ucraina antifascista». «Alcuni analisti non di matrice occidentale interpretano quello che sta succedendo dagli anni Novanta in poi come un'inversione degli esiti della Seconda guerra mondiale» osserva. «E intravvedono in queste formazioni armate estremistiche e fanatiche i successori dei perdenti della Seconda guerra mondiale. Tant'è vero che usano spesso gli stessi simboli e si mettono in continuità con le divisioni SS. Guardando la mappa dell'Europa ci sono analogie abbastanza impressionanti. Il Kosovo prima del 2008 è stato reso indipendente solo da Benito Mussolini, con un decreto fatto poco prima dell'8 settembre 1943. Anche l'Ucraina avrebbe voluto esserlo, ma i nazisti dopo averlo promesso non gliel'hanno permesso».

Insomma, tutto ruota attorno al nazionalismo... «Non solo per cause interne, ma anche per interessi esterni. Qualcuno ci soffia sopra, qualcuno finanzia le organizzazioni più fanatiche, che vengono organizzate e vezzeggiate, anche a livello di mass media» continua Martocchia. «In Ucraina sono stati fondamentali gli anni del presidente Yushenko, l'altro presidente filo-occidentale che ha preparato il terreno ai fatti del 2014. Sotto la sua presidenza sono state finanziate, armate e addestrate le formazioni estremistiche, sono stati eretti monumenti a Bandera ed è stata messa la sua effigie sui francobolli... È un percorso costruito negli anni, con un intervento non innocente da parte europea e statunitense».

Gaiani sottolinea l'ultima analogia. «Un ultimo aspetto in comune Ucraina e Kosovo è la secessione, cioè il fatto che le province orientali del Donbass aspirano alla secessione dell'Ucraina, così come il Kosovo aspirava alla secessione dalla Jugoslavia» spiega. «Noi come Occidente abbiamo costruito militarmente e politicamente un abominio giuridico come quello che ha permesso a una provincia serba di diventare Stato indipendente, governato da personaggi notoriamente in buona parte criminali: sia di guerra sia nel senso comune del termine. Ecco perché, dopo il Kosovo, oggi contestare in base al diritto internazionale l'aspirazione secessionista del Donbass, sostenuta dalla Russia dopo l'intervento militare, fa un po' ridere». Un discorso che, al contrario, vale anche per Putin. Dopo aver riconosciuto le repubbliche di Donetsk e Luhansk, come può contestare l'indipendenza del Kosovo?

Zannier: «Come il Kosovo, le autoproclamate repubbliche rischiano una sovranità limitata»

Che cosa insegna l'esperienza del Kosovo all'Ucraina? Lo abbiamo chiesto all'ambasciatore Lamberto Zannier, già segretario generale dell'Osce, che dal 2008 al 2011 è stato capo della Missione della Nazioni Unite in Kosovo.

«All'Ucraina il Kosovo insegna questo: c'è un grosso dilemma fra due principi riconosciuti dal diritto internazionale, che sono l'autodeterminazione e la garanzia dell'integrità territoriale degli Stati, due principi uno in conflitto con l'altro. La Serbia, nel caso del Kosovo, invoca la sua integrità territoriale, il Kosovo invoca l'autodeterminazione. Il problema è che quando la geopolitica provoca una divisione all'interno della comunità internazionale, chi ne soffre è il Paese che si è autoproclamato indipendente, con un appoggio solo parziale della comunità internazionale. E questo è il problema in cui si dibatte il Kosovo, che non è riuscito ad avere pieno riconoscimento, ad esempio in termini di presenza alle Nazioni Unite o nelle organizzazioni internazionali».

Per esempio?

«Nonostante ripetuti tentativi, il Kosovo non è riuscito a entrare nell'Onu, nel Consiglio d'Europa, nell'Osce o nell'Interpol. Quindi ha una capacità internazionale limitata, non può essere parte dei trattati che sono istituiti presso queste organizzazioni e il riconoscimento dell'indipendenza e delle frontiere rimane parziale e controverso. Queste sono le lezioni del Kosovo, che vanno tenute presenti anche nel caso di entità, come le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, che si potrebbero formare su pezzi del territorio ucraino».

Che cosa potrebbe capitare a queste autoproclamate repubbliche?

«Certamente non verranno riconosciute dall'Ucraina e da tutti i Paesi che sostengono l'Ucraina in questa guerra e si troveranno in futuro, ammesso che restino in esistenza così come proclamano, con una sovranità limitata. E se sopravvivranno a questo disastroso conflitto saranno totalmente dipendenti dai loro protettori russi, così com'è per l'Abkhazia in questo momento, che per la sua esistenza dipende interamente dalla Russia».

Angeli: «Evitare il più possibile le ambiguità»

Che cosa insegna l'esperienza del Kosovo all'Ucraina? Lo abbiamo chiesto ad Andrea Angeli, il funzionario Onu che ha lavorato nei Balcani per 16 anni, di cui sette in Kosovo. E che sullo Stato indipendente dal 2008 ha anche scritto un libro: L'assedio invisibile, Rubbettino editore.

«Sperando che si arrivi a una sorta di accordo, l'auspicio è che un'eventuale risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sia il meno possibile ambigua».

In che senso?

«Nel caso del Kosovo, la risoluzione 1.244 Onu del 10 giugno 1999 aveva "riaffermato l'impegno di tutti gli Stati membri a (rispettare, ndr) la sovranità e l'integrità territoriale della Repubblica Federale di Jugoslavia e degli altri Stati della regione”. Gli albanesi kosovari però avevano ribattuto che la Jugoslavia non c'era più e che quindi quella risoluzione non era più valida».

Ma era vero?

«In realtà nel 1999 la Jugoslavia c'era ancora: ed è esistita fino al 2003. Ma Pristina sosteneva (dal 2008, data dichiarazione unilaterale indipendenza) che la Jugoslavia non esisteva più. Insomma, ci sono degli spazi che danno adito a interpretazioni diverse e ciò crea ferite che non si rimarginano mai. Per questo, in Ucraina bisognerebbe adoperarsi per evitare il più possibile zone d'ombra».

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Elisabetta Burba