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(Ansa)
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Etnie, religione, ricchezza; la Francia brucia di un odio che ha ragioni diverse

Una popolazione sempre più di origine africana, musulmana, povera. E la cosa ai francesi da generazioni piace sempre meno

Quando le povere periferie francesi attirano l’attenzione dei media, di solito è perché sono in fiamme. È questo un velenoso modo di dire nordeuropeo, che purtroppo rende sin troppo bene l’idea di ciò che sta accadendo in Francia negli ultimi giorni. Una guerriglia quotidiana a bassa intensità che conosce notorietà durante quei picchi di violenza che puntualmente si verificano non appena ci scappa il morto.

L’ultima di queste rivolte è stata innescata dall’uccisione di Nahel Merzouk, diciassettenne di origini algerine che non ha rispettato l’ordine di fermare la sua auto durante un posto di blocco a Nanterre, vicino Parigi. La polizia spara, il ragazzo muore, gli abitanti delle banlieues - le periferie misere e dimenticate - trovano un pretesto per devastare la capitale e molti altri centri francesi, verso i cui abitanti ricchi e agiati covano un odio atavico.

Ma da dove deriva tutto questo odio? C’è chi dice dal razzismo e dalla ghettizzazione propria dei francesi, essendo gli abitanti delle banlieues per lo più immigrati di seconda e terza generazione, neri e/o musulmani. Ed ecco allora i semi dell’intolleranza, in questo caso resa ancor più evidente dal fatto che i francesi abbiano fatto una gara di solidarietà per Florian M., il poliziotto responsabile dell’omicidio del giovane algerino, riuscendo a donare alla famiglia oltre 1 milione di euro; mentre i familiari di Nahel Mezouk hanno raccolto meno di un quarto di quel denaro.

Anche se varrebbe la pena sottolineare come, da un lato, i francesi sono esasperati dalle manifestazioni di protesta violente, indipendentemente dalle loro ragioni (vedi i Gilet gialli), e vedono nella solidarietà a un poliziotto una maniera per condannare le violenze di piazza; dall’altro lato, è naturale che la colletta per la famiglia di Mezouk provenga anzitutto da chi si sente a loro più vicino, e dunque da chi ha minori disponibilità economiche rispetto ai ricchi parigini, indifferenti agli argomenti della piazza e attenti solo al proprio cortile di casa.

Curioso, in tutto ciò, che il promotore della raccolta di denaro per il poliziotto sia stato Jean Messiha, personaggio ben noto in Francia per le inclinazioni di estrema destra eppure di origini egiziane: è un cristiano copto nato al Cairo, naturalizzato francese a vent’anni. Messiha ha militato prima per Marine Le Pen per poi avvicinarsi alle presidenziali 2022 alle idee ancor più intransigenti di Eric Zemmour, di cui è stato il portavoce.

Dunque, se è vero che l’umiliazione del razzismo è una molla sufficiente per accendere la miccia, il fuoco che divampa da anni in Francia si alimenta anche di molti altri fattori: anzitutto lo scontro religioso, reso manifesto dalle ondate di attentati che si sono concentrati in Francia soprattutto tra il 2014 e il 2016, all’epoca dell’ISIS, che hanno reso evidente come per molti seguaci di Allah la legge di Dio sia superiore (o addirittura alternativa) a quella dello Stato francese, e che uccidere gli «infedeli» è una priorità. Della serie, noi contro loro. La forza del portato generazionale di quella rabbia ha lasciato dietro sé un’indignazione diffusa, che ha diviso la società francese ancor più nettamente.

C’è, però, chi sostiene che tutto dipenda semmai dalla violenza in sé, risultato della povertà e della frustrazione di cui sono vittime gli immigrati, relegati in ghetti senza assistenza sociale e senza investimenti che permettano loro di uscire dalla condizione di «invisibili». Anche se negli ultimi vent’anni sono stati spesi più di 60 miliardi di euro per ristrutturare i blocchi abitativi e costruire nuove case, oltre a migliorare le strutture e le infrastrutture nelle banlieues, collegando ad esempio le periferie al centro, lo sforzo dello Stato non sembra essere bastato pressoché a niente. Forse perché i numeri restano soltanto numeri, mentre la società è viva e in continua evoluzione.

C’è chi dice ancora che il problema sia in realtà storico, e che vada fatto risalire direttamente alle relazioni bilaterali tra la Francia e l’Algeria (su 7 milioni di immigrati, 4 sono di origine algerina), segnate da una storica dominazione coloniale di Parigi, che si concluse nel peggiore dei modi: con una guerra sanguinosa e traumatica durata dal 1954 al 1962, dove la Francia conobbe il proprio Vietnam, arrivando a perdere quasi 25 mila soldati per poi cedere all’indipendenza dei pieds-noirs. Una lunga scia di sangue e soprusi che gli algerini non hanno dimenticato: al punto che, allo scoppio dei disordini di giugno, il governo dell’Algeria si è sentito in dovere di scrivere al Governo francese comunicazioni in cui intimava a Parigi: «Dovete prendervi cura dei nostri cittadini». Come a dire che gli algerini in Francia restano algerini e non francesi. Un fatto quantomeno curioso, che tuttavia dice molto dell’approccio nordafricano al problema.

Alcuni, infine, ritengono che i disordini siano esclusivamente un problema di gestione dell’ordine pubblico e di mancanza di piani adeguati per amministrare i ghetti: «Sono solo bande di piccoli criminali che usano la rabbia per una tragica morte come scusa per seminare il caos» accusano poliziotti e operatori del settore, abbandonati a se stessi non meno degli immigrati.

Vero è che i quartieri più poveri di Francia - ribattezzati amministrativamente «quartieri prioritari» - ospitano complessivamente più di cinque milioni di persone, dunque la maggior parte delle fasce più sfortunate del Paese, di cui la stragrande maggioranza sono appunto nuovi immigrati o francesi da tre, quattro generazioni. In queste polveriere, la disoccupazione è doppia (quando non tripla) rispetto al resto del Paese, e le statistiche indicano un 57% del tasso medio di povertà contro il 21% degli altri centri urbani.

A queste latitudini, né la scuola pubblica né il lavoro regolare sono concepiti ormai dai giovani – i protagonisti delle proteste di questi giorni sono al 95% sotto i trent’anni, di età compresa per lo più tra i 16 e i 25 – come un modo per migliorare la propria vita, mentre il traffico di droga e l’affiliazione alle frange più estreme dell’Islam sono lo sbocco più veloce ed efficace cui affidarsi per chi vuole campare. Le gang criminali e le scuole coraniche hanno dunque gioco facile nel reclutare i «nuovi francesi» (che poi francesi non si sentono poi molto, considerato che il 22% di tutti i nuovi nati in Francia porta un nome arabo), fornendo loro una sorta di assistenza sociale privata e scollegata dal corpo dello Stato da cui poi è difficile staccarsi.

I mali sociali della Francia sono dunque così evidenti nei quartieri poveri e talmente radicati, che le tragedie qui sono all’ordine del giorno: tra il 2012 e il 2020, 36 membri delle forze dell’ordine sono stati uccisi in Francia mentre erano in servizio in queste aree, e ogni anno 5.000 sono i feriti. Mentre secondo i dati della polizia, sono 13 le persone uccise da agenti per non aver rispettato l’ordine di fermarsi alla guida, e questo soltanto nel 2021. Gli immigrati e loro discendenti hanno una probabilità da due a tre volte superiore rispetto agli altri francesi di avere a che fare con le forze dell’ordine, e con i loro abusi.

Tutto ciò sta a significare che i problemi sono non soltanto endemici ma da lungo tempo riconosciuti e analizzati dalle autorità, anche se poco o nulla si riesce a fare in proposito. Il primo piano di riqualificazione dei quartieri residenziali risale addirittura al 1977, quando l’allora primo ministro Raymond Barre lanciò un primo progetto, nella consapevolezza che le periferie altrimenti si sarebbero trasformate in ghetti. Tolto il periodo della guerra algerina, i disordini peggiori si sono verificati nel 1990, nel 1993 e nel 2005, quando due adolescenti morirono in una sottostazione elettrica vicino a Parigi mentre si nascondevano dalla polizia, facendo scattare lo stato di emergenza per tre settimane.

Nel corso del tempo, ogni sforzo e ogni forma di attivismo governativo, welfare compreso, hanno sortito l’effetto contrario: gli obiettivi principali delle proteste sono sempre più spesso i municipi, le stazioni di polizia, le scuole, qualsiasi edificio associato allo Stato francese e persino i presepi durante il Natale. Si potrebbe dunque essere tentati di concludere che gli sforzi per portare le periferie nel mainstream sociale ed economico siano stati un costoso fallimento durato decenni. E che dunque è tempo di cambiare approccio. Al tempo stesso, l’ortodossia repubblicana francese è inconcepibile per le vecchie colonie, che si sentono un corpo estraneo e che, in ragione di ciò, approfittano di ogni occasione per sottolinearlo.

Ma l’ortodossia repubblicana per sua impostazione non può dare dignità politica ad alcun corpo intermedio tra gli individui liberi - resi uguali e spogliati di ogni settarismo dallo Stato - e la nazione sovrana. È un principio granitico cui si attengono tutti gli Stati laici. A meno che qualcuno (a cominciare dagli intellettuali francesi) non abbia confuso il multiculturalismo per una deroga a tale stato di diritto, creando una pericolosa ferita che sanguina nel cuore della Francia contemporanea.

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Luciano Tirinnanzi