droni
(Ansa)
Dal Mondo

Con l'attacco alla base Usa in Giordania si è superata la «linea rossa»

I droni partiti dalla Siria e forse firmati dall'Iran rischiano di essere una miccia esplosiva nella polveriera del Medio Oriente

Durante la notte tra sabato e domenica tre soldati dell'esercito americano sono stati uccisi e almeno trenta di membri in servizio sono rimasti feriti in un attacco di droni partiti dalla Siria contro un piccolo avamposto americano in Giordania. Si tratta di "Tower 22", un avamposto nel deserto, vicino al confine siriano, utilizzato per le missioni delle forze speciali nella “terra di nessuno” dove si muovono i terroristi tra Iraq e Siria. Inoltre, l’avamposto serve agli Usa per controllare le vie utilizzate dai Guardiani della Rivoluzione iraniani per rifornire le loro entità. Si trova a venti chilometri a sud dell'aeroporto siriano di al-Tanf, un importante presidio del Pentagono.

Dalla metà di ottobre, le brigate armate da Teheran hanno cercato invano di bombardare al-Tanf. È la prima volta che membri delle truppe americane vengono uccisi in Medio Oriente dall’inizio della guerra a Gaza. Il Comando Centrale degli Stati Uniti ha confermato in una dichiarazione che tre membri del servizio sono stati uccisi e 25 feriti in un attacco di droni che «ha avuto un impatto su una base nel nord-est della Giordania». Dal principio della crisi a Gaza, le milizie filoiraniane hanno preso di mira le installazioni statunitensi in Iraq e in Siria più di centocinquanta volte. Tuttavia, missili e droni sono sempre stati intercettati con successo. Ieri, sono purtroppo riusciti a perpetrare una strage, superando quella che è chiamata «linea rossa» che potrebbe innescare un'escalation nell'intera regione. Non a caso, il presidente Joe Biden ha annunciato le prime vittime statunitensi dal 7 ottobre, affermando: «Sappiamo che l'attacco è stato condotto dai gruppi radicali sostenuti da Teheran. E non abbiamo dubbi: la faremo pagare i responsabili».

Quanto accaduto rappresenta una significativa escalation in una situazione già esplosiva in Medio Oriente proprio mentre a Parigi stava per svolgersi una delicatissima riunione organizzata per far ripartire i negoziati su una possibile tregua a Gaza e la liberazione degli ostaggi. L’incontro è avvenuto ieri sera e al tavolo c’erano i capi di entrambi i servizi segreti israeliani; il capo del Mossad, David Barnea, quello dello Shin Bet Ronen Bar, e il maggiore generale Nitzan Alon, nominato commissario del governo israeliano per la questione degli ostaggi, Il direttore della CIA William Burns, il capo dell'intelligence egiziana Abas Kamel e il ministro degli Esteri qatarino Mohamed bin Abderrahman Al Thani. L’Iran ha quindi aperto un nuovo fronte nel confronto con gli Stati Uniti nel pieno della campagna elettorale, e Joe Biden non può mostrare esitazioni. Lo speaker repubblicano della Camera, Mike Johnson, ha subito dichiarato: «L'America deve dare un messaggio chiaro come il cristallo al mondo intero: gli attacchi contro le nostre truppe non saranno tollerati». La strategia degli ayatollah di Teheran è fin troppo chiara: mandano all'assalto i loro proxy regionali per cercare di coinvolgere gli Stati Uniti in un conflitto su vasta scala nel Medio Oriente.Questa operazione è sostenuta dall'arsenale degli Huthi yemeniti, che bloccano la navigazione nel Mar Rosso, e da numerose formazioni sciite attive in Siria e in Iraq, che continuano ad attaccare le installazioni statunitensi nate come presidio della coalizione internazionale anti-Isis che proprio ieri ha colpito in Turchia con l’attentato durante la funzione alla messa domenicale nella Chiesa di Santa Maria Draperis, nel quartiere di Saryer, a Istanbul, dove è stata uccisa una persona.

Il Pentagono fino ad oggi ha sempre risposto con azioni mirate, con raid contro le postazioni missilistiche, le centrali radar e i depositi degli Huthi. Tuttavia, le aggressioni contro petroliere e portacontainer proseguono, con attacchi persino contro il caccia Carney dell'US Navy. In Iraq e in Siria, i gruppi del cosedetto Asse della Resistenza hanno lanciato numerosi droni, missili e razzi contro le basi americane, senza superare i sistemi difensivi C-Ram. Ci sono state rappresaglie contro le caserme dei movimenti filoiraniani, con la più significativa il 4 gennaio 2024 che ha incenerito l'auto di Mushtaq Talib al-Saidi, vicecomandante dell’Unità di mobilitazione popolare irachena. Tuttavia, ogni azione deve fare i conti con i legami stretti tra queste organizzazioni e le autorità di Iraq e Siria: il premier iracheno, rappresentante della maggioranza sciita, ha addirittura chiesto l'espulsione delle forze statunitensi dal Paese. La Casa Bianca ha comunicato che l'incursione dell’altra notte è avvenuta «nel Nord-Est della Giordania, non lontano dal confine siriano» ed è un ulteriore motivo di preoccupazione dato che la monarchia hashemita è uno degli alleati più fidati di Washington, ma governa una popolazione composta per quasi metà da palestinesi: la mobilitazione popolare per Gaza è massiccia e ci sono pressioni da parte dei movimenti islamisti stranieri per trasformarla in una rivolta aperta contro la monarchia.

In Giordania sono dislocati tremila militari americani, che mantengono un profilo basso: l'esistenza di alcune installazioni non è mai stata ufficializzata e non si trova nemmeno nei documenti del Pentagono. A Politico John Spencer, docente all'accademia di West Point, ha dichiarato: «La risposta sarà difficile, ma se non colpirà i responsabili, rappresenterà un colpo significativo alla nostra sicurezza così come il nostro tentativo di contenere il regime iraniano non ha funzionato». Di certo c’è che dopo quanto accaduto ieri l’ombra di una guerra totale si allunga sempre di più sul Medio Oriente.

TUTTE LE NEWS DAL MONDO

I più letti

avatar-icon

Stefano Piazza