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(Ansa)
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L'asse sino-russo è un pericolo per l'occidente

Pechino e Mosca puntano a costituire un ordine internazionale antioccidentale: un pericoloso incubo geopolitico che sta prendendo progressivamente forma

Si rafforza l’asse tra Mosca e Pechino. “Non importa come la situazione cambierà, la Cina rafforzerà la cooperazione strategica con la Russia per promuovere un nuovo modello di relazioni internazionali e una comunità con un futuro condiviso per il genere umano”, ha dichiarato martedì il viceministro degli Esteri cinese Le Yucheng, ricevendo a Pechino l'ambasciatore russo Andrey Denisov. Si tratta di parole significativamente inquietanti, ma che non stupiscono.

La Repubblica popolare non ha mai condannato l’aggressione russa dell’Ucraina e ha di fatto spalleggiato il Cremlino in varie occasioni: ha lasciato intendere di non voler sostenere le sanzioni occidentali, mentre – alcuni giorni fa – ha votato contro la risoluzione che sospendeva Mosca dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Le parole di Le Yucheng sono quindi del tutto coerenti con l’atteggiamento finora tenuto da Pechino: una Pechino che non ha alcuna intenzione di ritirare il suo supporto al Cremlino. I paradossi risiedono semmai in Occidente, dove si spera ancora che sia possibile sganciare in qualche modo la Cina dalla Russia. L’Alto rappresentante per gli affari esteri dell’Ue, Josep Borrell, ha invocato una mediazione del Dragone nella crisi, mentre il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha chiesto a Pechino di non interferire nelle sanzioni occidentali contro Mosca, ventilando un “danno di reputazione” per la Cina. Una tesi similare è stata di recente espressa anche dal segretario al Tesoro americano, Janet Yellen. È evidente che queste posizioni sono dettata da una sostanziale ingenuità. Ritenere auspicabile una mediazione da parte della Cina rischia infatti di rivelarsi un errore di dimensioni bibliche.

È vero: c’è chi dice che Pechino avrebbe tutto da guadagnare dalla rapida risoluzione di questa crisi, in quanto le turbolenze in corso comprometterebbero i suoi lucrosi affari internazionali. Indubbiamente questa tesi ha una sua plausibilità. Ma ha anche un difetto: vede soltanto una parte della questione. È senz’altro vero che, soprattutto negli ultimi anni, la Cina è riuscita a rafforzarsi notevolmente dal punto di vista economico-finanziario all’interno dell’ordine internazionale che trova ancora oggi negli Stati Uniti il proprio perno. Il punto è che questo tipo di vantaggio a Pechino non basta più. Un dato indubbiamente rilevante che sta emergendo attraverso la crisi ucraina è infatti il ritorno sulla scena di un principio che sembrava ormai sprofondato nel dimenticatoio della Storia: quello della politica di potenza. Un principio che, al contrario, sta adesso tornando in auge. Ed è quindi attraverso le sue lenti che devono essere letti gli eventi in corso. Per quanto possa rivelarsi conveniente sul piano economico, Pechino non ha più intenzione di accettare nel lungo termine l’attuale ordine internazionale, perché sa che, nonostante i vantaggi, sarà sempre in qualche modo costretta a riconoscerne la centralità occidentale (americana in primis). Pechino quindi ragiona in un’ottica revisionista, che non può non poggiare sulla politica di potenza. Attenzione: questo non vuol dire che il dato economico non conti. Vuol dire semmai che, in una logica di potenza, il dato economico è subordinato ad obiettivi di altra natura: politica e (potenzialmente) militare.

L’incontro tra Le Yucheng e Denisov si inserisce quindi nella scia di quanto avvenuto lo scorso 4 febbraio a Pechino, quando ebbe luogo il vertice tra Xi Jinping e Vladimir Putin: un vertice in cui i due leader gettarono le basi per la costruzione di un nuovo ordine internazionale dai tratti smaccatamente antioccidentali. È dunque in quest’ottica che la Cina non ha alcuna reale volontà di mediare nella crisi ucraina: suo obiettivo è semmai quello di sfruttarla per conseguire vari obiettivi. Nel breve termine, il Dragone punta a spaccare la comunità transatlantica e ad allontanare l’attenzione americana sull’Indo-Pacifico. Nel lungo termine, il suo obiettivo è quello di creare un blocco geopolitico di cui essere il perno: un blocco geopolitico che veda la Russia in posizione nettamente subordinata alla Repubblica popolare e che si integri con l’Africa (dove, negli ultimi anni, si è registrato un notevole espansionismo politico-economico sino-russo). È chiaro che, nei desiderata di Xi Jinping, questo nuovo ordine dovrebbe marginalizzare gli Stati Uniti e inglobare progressivamente l’Unione europea: da qui l’esigenza, per Cina e Russia, di indebolire le relazioni transatlantiche e la Nato. Nella crisi in corso, Pechino non è la soluzione, ma parte del problema. Un problema significativo, perché la leadership cinese non ha nessuna intenzione di giocare di sponda con l’Occidente.

Chi dunque pensa che la Cina vada a tutti i costi coinvolta come un partner, si ricordi dell’atteggiamento ostile all’Occidente assunto da Pechino negli anni all'interno di istituzioni internazionali, come l’Organizzazione mondiale del commercio o l’Organizzazione mondiale della sanità. Si ricordi, tra l’altro, che il Dragone ha appena schierato missili in Serbia. Si ricordi infine che Xi Jinping ha ripreso a esercitare la propria pressione militare su Taiwan (che non è una “questione interna” come dice Pechino). La Cina non vuole la stabilità. La Cina vuole farla finita con l’ordine internazionale occidentale. O le leadership di Washington e Bruxelles se ne rendono conto e agiscono di conseguenza. Oppure noi europei finiremo facile preda del Partito comunista cinese. Tertium non datur.

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Stefano Graziosi