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(Ansa)
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Il benaltrismo di alcuni su Hunter Biden

In un articolo sulla Stampa, Alan Friedman minimizza i guai giudiziari del figlio del presidente. Ma omette dei "dettagli" non proprio irrilevanti

Lascia perplessi un’analisi di Alan Friedman, dedicata al caso di Hunter Bidene pubblicata oggi sulla Stampa. Neanche a dirlo, il giornalista sposa la versione promossa dal Partito democratico americano: in sostanza, il figlio dell’attuale inquilino della Casa Bianca non avrebbe commesso nulla di grave e sarebbero i repubblicani a ingigantire la questione per biechi fini politici. Peccato che le cose non stiano proprio così. Ma entriamo nel dettaglio.

L'articolo dice innanzitutto che la tendenza di Hunter “a sfruttare un cognome pesante per fare affari, quando il padre era vicepresidente, non è nulla in confronto agli intrallazzi tra Jared Kushner e Mohammad bin Salman, il principe saudita che ha concluso un curioso investimento dando due miliardi di dollari al genero di Trump, sei mesi dopo che il tycoon aveva lasciato la Casa Bianca”. Ecco, la minimizzazione di Friedman è smentita già dalle sue stesse parole. Primo: l’affare saudita di Kushner è avvenuto mesi dopo che il genero di Donald Trump aveva lasciato la Casa Bianca. Di contro, gran parte dei controversi affari internazionali di Hunter ha avuto luogo mentre il padre Joe era vicepresidente in carica degli Stati Uniti (soprattutto tra il 2013 e il 2015).

Secondo: il problema non è soltanto che Hunter ha sfruttato il cognome del padre per fare affari. Documenti bancari recentemente pubblicati dimostrano che i Biden, negli anni, hanno ricevuto oltre 20 milioni di dollari da soggetti stranieri controversi, tra cui oligarchi cinesi, ucraini, russi e kazaki. Inoltre, nel 2014 Joe Biden, da vicepresidente, ha partecipato a una cena a Washington, insieme al figlio, a cui presero parte almeno due di questi magnati: parliamo della miliardaria russa, Elena Baturina, e del businessman kazako, Kenes Rakishev. Entrambi, pochi mesi prima, avevano versato soldi a società legate ad Hunter: la prima 3,5 milioni di dollari, il secondo oltre 142.000 dollari. È interessante sottolineare che la Baturina è la vedova dell’ex sindaco di Mosca e che, almeno finora, non è stata curiosamente sottoposta alle sanzioni americane contro gli oligarchi russi. Va anche ricordato che, secondo la testata francese Le Media, Rakishev avrebbe avuto stretti legami con il leader ceceno, Ramzan Kadyrov. Insomma, pare di capire che a fare affari con soggetti collegati al Cremlino non sia stato Donald Trump, ma il figlio di Biden, mentre il padre era vicepresidente.

In terzo luogo, vale la pena ricordare che, secondo la testimonianza alla Camera dell’ex socio ed ex amico intimo di Hunter, Devon Archer,Joe Biden, da vicepresidente, fu messo in contatto almeno 20 volte dal figlio con i suoi controversi soci in affari. Ovviamente Hunter puntava in questo modo ad aumentare la propria influenza nei confronti dei suoi interlocutori: indipendentemente da quale potesse essere il contenuto delle conversazioni, a lui bastava che il potente genitore comparisse di persona o in vivavoce per ottenere il suo scopo. E qui sorge una domanda ignorata dall’articolo di Friedman: è possibile che Biden non si rendesse conto di una dinamica tanto ovvia e si facesse strumentalizzare passivamente dal figlio? O Joe Biden è un totale sprovveduto o era connivente in questa operazione di traffico d’influenza. Tertium non datur.

Eppure Friedman scrive che i repubblicani “si stanno inventando fatti tutti loro”. Però che i Biden abbiano ricevuto 20 milioni di dollari da soggetti stranieri controversi è un fatto; che Joe abbia parlato con i soci del figlio almeno 20 volte è un fatto; che Joe sia stato a cena con almeno due oligarchi che avevano versato soldi al figlio è un fatto. È normale tutto questo? Se al posto di Hunter ci fosse stata Ivanka Trump, il giornalista avrebbe tenuto ugualmente questa sua linea assolutoria?

Ricordiamo che, nel 2020, Trump fu (giustamente) messo in croce, quando si scoprì che aveva avuto un conto bancario in Cina. Forse però è un tantino più grave che la famiglia dell’attuale presidente abbia preso soldi da Pechino. Fu il Washington Post a rivelare che Hunter guadagnò 4,8 milioni di dollari, tra il 2017 e il 2018, grazie all’allora colosso cinese Cefc: una realtà che aveva stretti collegamenti con l’Esercito popolare di liberazione (ricordiamo che già a dicembre 2016 Joe Biden non aveva escluso una candidatura presidenziale per il 2020). Non è onestamente chiaro per quale ragione se Kushner fa affari con l’Arabia Saudita dopo aver lasciato la Casa Bianca è uno scandalo e va invece tutto bene se Hunter faceva affari con oligarchi cinesi, russi, ucraini e kazaki, mentre il padre era vicepresidente in carica o era in odore di candidatura presidenziale.

Ma non è finita qui. Friedman sostiene che Hunter si sarebbe macchiato di “reati minori”. Anche qui l'articolo omette qualche piccolo “dettaglio”. Innanzitutto due informatori dell’Agenzia delle entrate americana hanno testimoniato al Congresso che l’indagine penale su Hunter Biden è stata oggetto di interferenze da parte del Dipartimento di Giustizia: circostanza confermata, sempre al Congresso, anche da un agente speciale dell’Fbi. Altro “dettaglio”: durante l’udienza in tribunale sul caso di Hunter Biden è emerso che il figlio del presidente è ancora sotto indagine per sospetta violazione della legge americana che impone la registrazione ai lobbisti operanti per conto di entità straniere. Nuovamente tornano quindi sotto i riflettori i controversi affari internazionali di Hunter, che – come abbiamo visto – potrebbero mettere nei guai anche il padre. Tra l’altro, il Dipartimento di Giustizia si è stranamente trincerato dietro un “no comment” quando gli è stato chiesto se il nuovo procuratore speciale stia indagando anche sul presidente in carica. Per quale motivo un “no comment” anziché una secca smentita?

Ovviamente ci sono delle indagini in corso e vedremo come andrà a finire la vicenda giudiziaria di Hunter Biden. Tuttavia, sostenere, come fa Friedman, che i fatti non ci sono o che sarebbero inventati ci appare vagamente azzardato. Per carità, Alan Friedman ha il sacrosanto diritto di sposare le cause che desidera. Ma, se proprio vuole difendere l’indifendibile, potrebbe almeno impegnarsi un po’ di più.

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Stefano Graziosi