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Follie virali in un Paese ce ha paura (ma resiste)

Gli svarioni del governo, il teatro dei social e la psicosi che cresce. L'Italia fa i conti con la fobia da virus - TUTTO SUL CORONAVIRUS

Pensavamo di avere visto tutto, poi è arrivato il coronavirus. Bollettini bellici da mane a sera. Scuole chiuse fino a nuovo ordine. Consiglieri comunali con la maschera antigas. Virologi acclamati come rockstar. I terroni che non vogliono i polentoni e nessuno che vuole né i terroni né tantomeno i polentoni. I braccianti rumeni che schifano i campi veneti. Le nostre navi diventate bastimenti carichi di peste. E ovviamente la lotta all'ultima pennetta nei supermercati, le liste d'attesa per l'Amuchina e le mascherine diventate riserve auree. Ma com'è nata la virusfobia? Il tarlo ci assale dopo un'altra mattinata passata zompando tra i siti d'informazione. La solfa è sempre la stessa: c'è poco da stare allegri. Meglio svagarsi, dunque. È appena passata l'ora di pranzo. Accendiamo la tv. Un gruppo di compassati camici bianchi appare sullo schermo: il consueto collegamento dalla clinica Spallanzani di Roma. Il primo, sconfortante, resoconto giornaliero. L'ansia fa capolino.

Diamo allora un'occhiata al cellulare: nella chat condominiale l'inquilina del secondo piano, che accudisce il marito infartuato, ha appena inviato il vocale di un insigne primario dei paraggi. Nessuna buona nuova, scandisce il luminare. Prepariamoci al peggio. Lo stesso che si desume dai volti tirati appena apparsi in tv. È partita un'altra diretta, stavolta dall'ospedale Maggiore di Bergamo. La sensazione non cambia: marca malissimo. Bip, bip, bip.

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Il gruppo WhatsApp della scuola del primogenito, chiusa a oltranza, continua a ribollire. I messaggi non letti s'accumulano. Sono già 17, tutti del medesimo tenore: altro che virus, i genitori periranno per consunzione. Esagerati. Invece abbiamo letto che, per alcuni psicologi, solo l'ironia può salvarci dal patema. Proviamo dunque a scorrere i post su Facebook: lì i buontemponi non mancano. E in effetti qualche meme strappa un sorriso. Ma sono ancora gli assilli a dilagare. Ha ragione la vulgata scientifica per cui «è poco più di un'influenza» o quella che prospetta cataclismi? Su una cosa però sono d'accordo: il governo non ne imbrocca una. La gestione dell'emergenza è stata emotiva, cervellotica e confusa.

Difficile dargli torto. Lo scorso 30 gennaio il ministro della Salute, Roberto Speranza, informa che il coronavirus va trattato al pari di «peste e colera». Il 22 febbraio il premier, Giuseppe Conte, assicura che «l'Italia è un Paese sicuro, in cui si può viaggiare e fare turismo». Come no? Segue serrata generale: musei, teatri, chiese, cinema. E cappuccino servito solo al tavolo.

La chat del condominio, intanto, si arricchisce di nuovi contributi. La signora del quarto piano, 79 spavalde primavere, è entrata in possesso di un audio esclusivo. Si sente il professor Tal dei Tali che allerta, a telefoni unificati, medici e infermieri del suo reparto. Un attimo, però. Cos'è questo dolorino che sentiamo al petto? L'angoscia che risale? Basta smartphone, meglio distrarsi con la tv. E le telecamere adesso inquadrano uno stuolo di consiglieri regionali lombardi. Manca il governatore, Attilio Fontana, in quarantena dopo l'inquietante apparizione in mascherina, bardato come un cardiochirurgo. Il suo collega, Alessandro Mattinzoli, è invece ricoverato dopo il tampone positivo. Avrà ancora la febbre alta? Meglio non pensarci.

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Torniamo a fissare lo schermo, sempre più sgomenti. Appreso l'aggiornamento dalla fu locomotiva d'Italia, parte un collegamento da Roma. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ci illustra come salverà le nostre esportazioni, dopo aver sfoggiato una oxfordiana pronuncia: insomma, il «vairus» non trionferà. Infine, poco prima di cena, c'è l'ormai irrinunciabile appuntamento con il bollettino diramato dalla protezione civile. È l'attesa conta giornaliera: morti, feriti, ricoverati.

Le regole sanitarie lo vieterebbero, ma cominciamo a mangiucchiarci le unghie: i contagi, come auspicano dottoroni e politiconi, scendono? Macché. Anche oggi, nessuna buona nuova. In compenso, decine di luminari, esperti ed eletti hanno iniettato nel popolo la massiccia dose di panico quotidiano.

Lo stesso Walter Ricciardi, unico italiano nel board dell'Oms e adesso consulente dei giallorossi, spiega invano: «La fonte dei dati deve essere unica: il ministero della Salute». Invece, ogni giorno è diventato un giorno di ordinaria psicosi. E il governo ci mette il carico da undici. Cosa si fa con le scuole? Chiuse per una settimana. No, per due. O forse quattro. Oppure tutto l'anno. Chissà.

E la disputa, all'inizio della crisi, sulla quarantena obbligatoria per chi veniva dalla Cina? Giammai, decidono i giallorossi: sarebbe discriminatorio. Ora Shanghai mette però sotto chiave chiunque arrivi dall'Italia. E chiudono i ristoranti cinesi, terrorizzati dal ceppo lombardo. Già, la coronafobia è nata così. Mentre gli altri Paesi europei spacciavano le morti da coronavirus per disgraziate influenze, spalleggiati dai loro media distratti, noi abbiamo teatralizzato l'emergenza sanitaria ed economica più grave del dopoguerra.

La comunicazione è pandemica, soprattutto ai tempi dei social. L'isteria prima invade le nostre vite e poi infetta il pianeta. Siamo gli untori. Ci rimbalzano ovunque. La Cnn trasmette in mondovisione un'infamante mappa: l'Italia è il focolaio globale. E, in Francia, Canal+ manda in onda uno sketch su una pizza tricolore, chiamata «Corona».
La desolante satira si ispira però alla folle realtà. Alcune catene della grande distribuzione nel Nord Europa, soprattutto francesi e tedesche, chiedono il certificato «coronavirus free» ai prodotti agricoli italiani. Vale per la frutta: kiwi, fragole, insalate, pere. O i formaggi. Ma anche per i vini veneti. Bottega è un'azienda del trevigiano che esporta prosecco nel mondo. Un cliente francese le ha chiesto un fantomatico attestato di salubrità. Alcuni agenti greci hanno invece scritto alle Fattorie Cremona: dimostrateci che il vostro grana padano non è contagiato, altrimenti fermate le spedizioni. Il direttore generale della cooperativa, Luciano Negri, non si è perso d'animo. E ha inviato ai riottosi ellenici una lettera dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare che ratifica l'ovvio: il morbo non si trasmette da forma a forma di parmigiano, bensì da uomo a uomo.

Eppure, persino queste assurdità diventano contagiose. Infondate paure si mescolano a spietate furberie. «Cosa c'entra il coronavirus con la qualità dei nostri alimenti?» attacca Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura. «Questo è l'ultimo atto di una guerra commerciale in corso. Alcuni mercati concorrenti cercano di sfruttare l'emergenza per danneggiarci. È puro sciacallaggio».

Così, gli ordini latitano. Una penuria che si aggiunge al rifiuto dei braccianti rumeni e bulgari di andare a lavorare in Veneto. La stagione del raccolto si avvicina. Nei campi c'è un'inedita quanto deleteria mancanza di manodopera. Mentre autotrasportatori austriaci e croati si rifiutano di varcare i nostri confini. Lo stesso capita nei porti. A Malta, si rifiutano di salire a bordo di tre mercantili battenti bandiera italiana. Meglio non avere contatti con gli equipaggi tricolore. A una petroliera che deve scaricare benzina in Portogallo non viene data nemmeno l'autorizzazione per sbarcare in porto. Ed è solo l'inizio.

«Se l'isteria e la follia si diffondono, rischiano di scarseggiare pure gli approvvigionamenti basilari: gas, petrolio e alimentari» spiega a Panorama Gian Enzo Duci, presidente di Federagenti e docente di economia dei Trasporti all'Università di Genova. «La politica non si è resa conto che l'eccesso di comunicazione ha fomentato l'irrazionalità. I messaggi allarmistici sono stati usati all'estero in maniera strumentale. Perché quello che perde l'Italia lo guadagnano altri. Come i porti del Nord Europa che, per esempio, festeggiano».

Ce l'abbiamo messa tutta, anche stavolta, per sceneggiare il dramma. Il consigliere comunale genovese, Alberto Campanella, si presenta in aula con la maschera antigas. Il sindaco di Saronno, Alessandro Fagioli, per giustificare l'ordinanza di chiusura del mercato, ipotizza invece la morte del tre per cento della popolazione cittadina: 1.200 decessi. E il ben noto primo cittadino di Firenze, Dario Nardella, lancia l'idea di «aprire i musei contro la paura». Stavolta interviene Roberto Burioni, il virologo più perfido e social d'Italia. Su Twitter, sbertuccia Nardella: «Il virus ringrazia». E l'aperitivo gratis a Venezia? Il professore, con un altro cinguettio, incenerisce la trovata: «Ma lo avete capito che la gente deve stare a casa?». Il meglio l'ha però dato nella diatriba con la collega Maria Rita Gismondo. Mentre il virus continuava ad avanzare, lei nicchiava: «A me sembra una follia. Si è scambiata un'infezione appena più seria di un'influenza per una pandemia letale». E Burioni, soprannominato «Borioni» per la smisurata considerazione di sé, rintuzza: «Temo che la signora del Sacco abbia lavorato troppo nelle ultime ore, dovrebbe riposarsi».

Lo stimato professore del San Raffaele di Milano adesso ha oltre 150 mila follower. È ormai un'acclamata webstar. Ogni giorno, dal suo pulpito digitale, distribuisce critiche e dispensa consigli. Del resto, oggi più che mai il Paese ha bisogno di guida e conforto. «Il coronavirus è un avvertimento della Madonna all'umanità» allerta su Radio Maria don Livio Fanzaga, direttore della seguitissima emittente. Il segnale, dunque, sarebbe chiaro: bisogna convertire l'umanità.

Ma il virus avanza, la psicosi cresce e nemmeno la fede può alleviare le sofferenze. In Lombardia le chiese chiudono i battenti. E altrove le messe sono surreali: acquasantiere vuote, niente scambi di pace e comunione in mano. Come trovare sollievo, allora? Burioni, nell'ennesimo tweet, suggerisce: «Pregate da casa». La fa semplice, il professore. Rinviati battesimi, cresime e nozze. Sospese persino le visite alle piscine di Lourdes: miracoli rinviati a data da destinarsi. Già.

Pensavamo di avere visto tutto, poi è arrivato il coronavirus. A proposito, quanti sono oggi i contagiati? E quasi notte. Mentre l'ansia ricomincia a salire, prendiamo in mano il cellulare. Siamo titubanti, ma è solo un attimo. Meglio turarsi il naso e dare l'ultima sorsata all'amara medicina.

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Antonio Rossitto