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"Staccare" o esser liberi?

La vicenda di Vincent Lambert riapre la discussione sul fine vita e sullo Stato che vuole essere onnipotente

"Perchè Lambert può morire e Shumacher no?" La domanda, violenta e sfacciata come occorre fare a colte per tornare a ragionare, campeggia su un articolo di Camilla Povia sulla serissima rivista La civilità delle macchine, della Fondazione Leonardo. Perché sulla vicenda di Vincent Lambert è stato fatto tanto baccano pubblico ( infine ê stato fatto morire) e invece di Michael Schumacher, lui grande pilota ma entrato in coma ma per un banale incidente di sci, non sappiamo nulla e può, giustamente, continuare a lottare e a vivere ?

Dove corrono i confini tra la disponibilità dello Stato sulla vita dei suoi cittadini se costan troppo e quelli invece per cui, se te lo puoi sacrosantemente permettere, ripari e curi la vita come pensi sia giusto ?

Non sappiamo i dettagli della situazione medica del grande Shumi - appunto non ci è dato saperlo ed è una scelta comprensibile e bella della sua famiglia, che appunto ê la comunità intorno al malato, così come sfuggono ai più i contorni medici della vicenda Lambert dove le corti oppongono nel giro di poche settimane giudizi opposti e su cui la comunità scientifica è stata divisa. Ma, appunto, nel caso di Lambert, lo Stato si è voluto sostituire alla comunità, e decidere. ha preso una parte, ha rotto la comunità e ha dato ragione agli uni e non agli altri. Riaffermando, per chi non se lo può permettere, il principio totalitario per cui nella società esistono, infine, l'individuo solo e lo Stato. E se l'uno è fragile, lo Stato lo scarta.

Ma perché lo sconosciuto fino a poco fa Lambert è stato pubblicamente e oscenamente fatto morire, e il grande campione famosissimo ê invece giustamente accudito, riservatamente ? Sono domande scomode. Piene di ogni rispetto per il dolore. Che invece solitamente viene esibito e dato in pasto alla discussione banale e sempre superifciale tra le persone (i pettegolezzi sul dolore come sull'amore sono infami e meritano l'inferno). Infatti, il problema non è il dolore, che non è mai discutibile, e soprattutto non misurabile se non personalmente e sopportabile solo tra persone che ti vogliono bene. Invece, media e imbonitori ci fan discutere in modo osceno di dolore, di sopportazione di quello o quell'altro, di vita vegetale (tra l'altro con molte confusioni scientifiche) e intanto si fa largo apparentemente ineluttabile che l'utlima parola sulla vite "di scarto" spetti allo Stato. Come se fosse davvero sensato un contenzioso tra facciamolo vivere o facciamolo morire. Ovvero si installa nelle coscienze stordite l'assunto totatlitario per cui è lo Stato, con le sue corti, a divenir giudice unico della possibilità di vita o morte.

È l'avverarsi del totalitarismo, per via tecnologica e mediatica, spacciato come Pubblica Pietà. A meno che, appunto, non si abbia la forza, la possibilità, i mezzi per sottrarti allo Stato, alla scena oscena e alla canea intorno al proprio dolore. L'estate, dicono è il momento in cui "staccare". Il verbo oggi molto in voga, che ben altro senso aveva per Schumi pilota, capace di grandi rischiose "staccate". Oggi invece è il segno segno lessicale di una età dell'ansia come diceva Auden. Come se ci fossero in giro, non so, un sacco di gente che fa lavori insopportabili, in miniera o chissa che cosa. Invece, impiegati, insegnanti, imprenditori, studenti, tutti a dire che devono "staccare". L'imperativo è staccare, come se un'ansia ci seguisse. Staccare da noi stessi. Come staccare dalla vita chi non pare più che una cosa, anche se qualcuno grida "è vivo". Come se si dovesse staccare da qualcosa che ci opprime. E a cui non riusciamo più a dare nome. Forse basterebbe guardare a queste e altre vicende senza smettere di fare domande, senza smettere di voler essere liberi, e un po' di respiro verrebbe, un po' meno di ansia ci torturerebbe. Poichè l'ansia alligna nelle menti degli schiavi, o meglio, più precisamente, di quelli che lo stanno diventando e non sanno bene nemmeno di chi.

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Davide Rondoni