Il caso Sallusti letto da un giudice controcorrente
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Il caso Sallusti letto da un giudice controcorrente

Perché la procura di Milano ha agito in chiave politica e il direttore de Il Giornale ha il diritto di chiedere che la pena non sia addolcita. L'opinione di Guido Salvini, magistrato

Di Guido Salvini*

La vicenda Sallusti prosegue peggio di come era cominciata. Nell’inconsueto percorso giudiziario e nella conseguente, inutile discussione sulla riforma del reato di diffamazione è difficile trovare qualcuno (magistratura, politica, lo stesso mondo della stampa) che un domani possa ricordare di aver fatto una buona figura.

La magistratura indubbiamente ci ha messo del suo, innescando con la sentenza un’agguerrita campagna nel mondo dell’informazione che paventava una legge-bavaglio, questa volta non di sola parte berlusconiana, tale da intimidire i cronisti e affievolire il diritto dei cittadini ad essere informati di ciò che accade.

Partiamo dalla condanna, che ci doveva essere, sia chiaro. Ho fatto il giudice penale per più di trent’anni e, tra le molte diffamazioni che mi sono passati dinanzi, anche velenose e “studiate”, non mi riesce di ricordare una condanna ad una pena detentiva superiore al minimo, senza attenuanti e senza sospensione della pena.

Immaginiamo un manager giapponese che non conoscesse nulla o quasi della vita italiana, cui fosse sottoposto la sentenza, l’articolo di Libero e l’intera giurisprudenza recente in materia di diffamazione. Dopo aver studiato, senza alcun preconcetto, certamente definirebbe nel suo report la condanna un evento al di fuori di qualsiasi previsione aziendale e magari frutto un evento borsistico inaspettato. Una sentenza, come si dice nel gergo giudiziario, “fuori tariffa” cioè esorbitante le sanzioni medie  che si applicano per i reati più frequenti e quindi tale da discostarsi dalla giustizia e avvicinarsi alla semplice punizione di un avversario.

Colpisce in particolare, e colpirebbe anche il nostro manager  che la leggerebbe in termini di “false comunicazioni sociali”, la definizione dell’imputato come soggetto “socialmente pericoloso”, immeritevole di qualsiasi attenuante. Dal certificato penale di Alessandro Sallusti infatti risultano solo altre condanne a pene pecuniarie (pecuniarie si badi bene) per lo stesso reato: precedenti quindi pressoché normali per chi è stato direttore di giornali per moltissimi anni e non responsabile di riviste di viaggi o di giardinaggio ma di quotidiani di parte, di polemiche e di attacco in cui per il giornalista il rischio di andare sopra le righe è sempre alle porte. Sarebbe stato forse meglio scrivere non che Sallusti è un pericolo pubblico ma che va punito duramente perché ha fatto scrivere propri articoli di critica alla magistratura: meno “tecnico”, ma forse meno ipocrita.

Del resto la sentenza Sallusti ha più di una singolarità. Passata da una pena pecuniaria di 5.000 euro in primo grado per un errore del Gup, una specie di lapsus di cui il Giudice si è reso conto solo in un secondo tempo scrivendo la motivazione, ad una pena detentiva molto alta è sembrata rappresentare qualcosa di più del risarcimento all'onore di un singolo giudice, tra l’altro non nominato in un corsivo che probabilmente non si è stampato nella memoria di nessuno. Assomiglia piuttosto ad una risposta “esemplare” dell'ordine giudiziario nel suo complesso, tante volte attaccato proprio dal non “rieducabile” Direttore. Dimenticando forse che di solito non è tanto la critica, in questo caso maldestra e in qualche modo attesa, di un quotidiano di parte che è destinata a fare molto male quanto la “notizia” infamante che proviene da un giornale che si presenta ai lettori come “indipendente”. In questo senso il linguaggio iperbolico del pessimo corsivo (con la contrapposizione tra il giudice di Torino, cui comunque è dedicato solo un rigo e mezzo, e il re Salomone della Bibbia che salvò il bimbo conteso) rendeva paradossalmente meno doloroso e  più contrastabile l'attacco ideologico e per di più sbagliato portato contro la decisione di autorizzare l'aborto della minore.

Dal canto suo anche la campagna del mondo della stampa contro le varie proposte di legge ha contribuito non poco, e spesso in malafede, a confondere le acque. Soprattutto non è  vero quello che si è letto in molti messaggi che venivano da quel mondo e cioè  che la diffamazione sia un “reato di opinione”.  Quanto meno da due  secoli  per “reato di opinione” si intendono le limitazioni al diritto di esprimere le proprie idee politiche, sulle istituzioni e la cosa pubblica, i sistemi di governo e in materia religiosa.

Proprio per difendere la libertà di pensiero sono così a poco a poco scomparsi i reati di vilipendio e apologia e tutti quelli che nascevano da una critica anche accesa all'operato del governo, delle forze armate, della Chiesa e così via. Ma in quei casi si trattava di  prese di posizione, in genere ideali, contro una determinata istituzione o le sue degenerazioni mentre la diffamazione è un attacco contro un singolo, figura di rilevanza pubblica o anche cittadino comune che sia . Quindi la diffamazione non è un reato di opinione ma una offesa a mezzo di una falsa opinione: una specie di rapina dell'onore.

Partire da un presupposto errato, con il quale si confondono cittadini, ha inquinato la campagna, comunque piuttosto confusa, contro la cosiddetta legge-bavaglio. Si è preferito dimenticare  ad esempio che centinaia di diffamazioni o presunte tali non riguardano politici o magistrati, che hanno tutti gli strumenti per difendersi e proprio per questo è ammessa nei loro confronti una critica più pungente, ma comuni cittadini. I quali, per usare sempre un termine giapponese, “perdono la faccia” in modo irreparabile soprattutto nell'ambito territoriale in cui sono conosciuti. Ricordo, tra i tanti che ho visto, il caso di un articolo di cronaca locale in cui, sulla base di notizie non controllate orecchiate presso i Carabinieri, un comune cittadino di un piccolo paese era stato additato come il ladro di oggetti di valore che si trovavano su alcune tombe del cimitero.

Un'offesa del genere  sta all'informazione con una carezza ad un pugno e quel cittadino non poteva certo rivolgersi al Parlamento o all'Associazione nazionale magistrati perché intervenissero a  difenderlo. Senza dimenticare che nell'attuale sistema dell'informazione Internet rende un'offesa all'onorabilità sempre accessibile e quasi immortale.

Se è sacrosanto richiedere eliminazione delle pene detentive e chiedere che le pene pecuniarie non siano tali da mandare in bancarotta un piccolo quotidiano o spaventare un cronista magari alle prime armi, non si può invece fare campagne per esigere una legge giusta ma con la “riserva mentale” di voler ottenere in realtà che la diffamazione sia cancellata dal mondo del diritto penale. Non si può nemmeno alzare barricate contro l'ipotesi di applicare la sanzione interdittiva della sospensione dell'attività di giornalista almeno in caso di recidiva e quando sia provato che la diffamazione non è stata involontaria ma rispondeva ad un intento doloso.

È vero che il diritto di informare è un diritto costituzionale ma anche in campi non meno sensibili, la sicurezza e i diritti di famiglia, il Carabiniere che stende rapporti falsi o il padre che maltratta i propri figli con la condanna sono sospesi dal servizio o dalla patria potestà e nessuno se ne stupisce.

In queste speculari distorsioni della realtà, il mondo della politica aveva la possibilità,  di utilizzare, una volta tanto, l’occasione di una legge nata come ad personam per fare una buona riforma, in sintonia con le Direttive europee, della legge sulla stampa che risale al 1948. Un’ impresa non difficile, franata in una discussione inconcludente, in imboscate reciproche in adesione al peggior principio politico: cioè quello per cui anche in questioni di interesse generale quello che propone l’avversario è sempre e comunque da affondare. Attorcigliatasi nell’attenzione di alcuni parlamentari a loro tornaconto personale trasformato in rancori contro il mondo della stampa sino ad evocare al responsabilità dell’editore.  E nello stesso tempo nell’attenzione  di altri parlamentari  ai messaggi che provenivano dagli organi di informazione di riferimento. Per chiudere tutto, dopo discussioni infinite e centinaia di titoli sui quotidiani, con un  risultato zero come se accordarsi sul diritto di rettifica o sulle sanzioni pecuniarie forse più arduo di una scelta di politica internazionale.

Calato il sipario in Parlamento, la magistratura è ricorsa a una toppa peggiore del buco dando l’impressione di non avere la coerenza di eseguire la sentenza che ella stessa aveva sollecitato o adottato e provocando anche contrasti al proprio interno, all’interno della Procura di Milano che ha vissuto un inedito scontro tra il Procuratore e molti suoi sostituti.

È abbastanza superfluo chiedersi se il decreto svuota-carceri potesse applicarsi al caso Sallusti o no. In realtà nello studiare attentamente la possibilità di applicare la detenzione domiciliare a questo singolo caso e non a tutti gli altri e citando esplicitamente il “risvolto mediatico” della vicenda la Procura della Repubblica si è collocata come titolare di una strategia, e quindi di una  impropria scelta politica, nel tentativo mal riuscito di riparare alle conseguenze di una sentenza andata fuori controllo.

Per quanto Sallusti sia un Dreyfus antipatico a molti, compresa, buona parte dei suoi colleghi che lo lasciano abbastanza spesso trasparire, è poi evidente che sul piano morale egli ha il diritto a che la sentenza sia eseguita nei termini in cui è stato irrogata e a non “subire” misure addolcite: studiare soluzioni “in favore” di una persona che non le ha  chieste e che ha fatto sin dal principio della sua condanna una questione di principio suona come una forma di violenza.

È poi abbastanza curioso che la scelta “creativa” della detenzione domiciliare sia in realtà priva di efficacia preventiva e cioè, nella logica della sentenza, non tuteli  la collettività dai “pericoli” che l’hanno imposta.

Infatti da casa sua Sallusti può continuare a scrivere o a dirigere i suoi giornalisti, cioè reiterare quei comportamenti che l’hanno collocato come “socialmente pericoloso”.

Intanto Sallusti, grazie alla sentenza di un giudice lungimirante, ha evitato un’altra condanna ad oltre 6 mesi di reclusione, sollecitata da una  Procura tornata alla mano dura per un’evasione dalla detenzione domiciliare altrettanto simbolica quanto la fumata di spinelli dei Radicali di fronte al Parlamento.

Ma l’affaire continua.

Per uscire dall’impasse e aiutare i tre topolini ciechi la magistratura, la politica, l’informazione che non sono riusciti a trovare una via di uscita dal labirinto, si parla in questi giorni di un provvedimento di grazia, magari adottato direttamente dal Presidente della Repubblica senza proposta del ministro di Giustizia e ovviamente senza richiesta del condannato.

Dal punto di vista concreto e personale la grazia porrebbe fine all’imbarazzo. Ma, sul piano politico e giudiziario, si fingerà forse di dimenticare che questo potere di clemenza è storicamente una prerogativa dei sovrani, è un residuo “regale” quasi estraneo alla nostra forma di governo e quando opera interviene in casi eccezionali: di norma in favore di persone molto anziane, di persone “redente” o, quando non vi siano altri mezzi, al fine  riparare ad una evidente disparità o ad un errore giudiziario: cioè proprio quello che si stenta ad ammettere.

Sarebbe, certo, una via di uscita. Ma anche una implicita dichiarazione di sconfitta  per la Giustizia, che non è stata giusta e per il Parlamento che si è mostrato incapace. E non garantirebbe nemmeno nel  futuro, altri giornalisti o altri direttori “pericolosi”.

° Salvini oggi è giudice per le indagini preliminari a Cremona; è stato per lunghi anni giudice istruttore e poi Gip a Milano; non aderisce al alcuna corrente organizzata della magistratura.

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