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Ansa
Calcio

Evviva la (super) Coppa Italia dei ricchi

Fuori i club di Serie C e i dilettanti, nel nuovo format meno partite e l'obiettivo di incassare di più dai diritti tv. La morale a due velocità dei censori della Superlega

Da quando è stata aperta a tutti, o quasi, a oggi solo due squadre in 13 anni sono state capaci di arrivare oltre lo scoglio degli ottavi di finale della Coppa Italia partendo dalla Serie C. Entrambe nella stessa stagione (2016), quella dell'Alessandria dei miracoli in semifinale dopo aver eliminato lo Spezia nei quarti dopo che gli spezzini avevano fatto fuori la Roma ai rigori il turno prima causando lo sfratto immediato di Garcia dalla panchina giallorossa per lasciare spazio allo Spalletti bis. Punto. Mai era accaduto prima e mai più è accaduto dopo.

Segno che la Coppa Italia era aperta al sogno di tutti solo sulla carta e la scelta compiuta ora dai club di A e B di tagliare i tagliabile e limitare l'accesso solo alle 40 squadre dei due massimi campionati non è altro che una presa d'atto della situazione. Meno club al via (da 78 a 40), meno partite, calendario meno compresso e qualche impegno in meno per i calciatori, Serie A in campo già ad agosto per le seconde file, gare più interessanti per chi acquisterà i diritti tv visto che la lunga fase di sfide incrociate tra le cenerentole del calcio italiano non passava nemmeno sui teleschermi della Rai. Difficile pesare l'appeal di un Sudtirol-Latte Dolce (per la cronaca finita 2-1 nel primo turno di questa edizione), molto più interessanti i match da gennaio in poi con ascolti da Champions League (PANORAMA SE NE ERA OCCUPATO A FEBBRAIO CON UN'ANALISI DEGLI ASCOLTI TV).

Per capirci, il quarto di finale dei poveri tra Spezia e Alessandria del 18 gennaio 2016 aveva raccolto briciole in tv: 595.000 telespettatori e il 2,1% di share. Un decimo esatto di Lazio-Juventus (6,6 milioni) e Napoli-Inter (6,9) dello stesso turno, giocate a pochi giorni di distanza. La morale? Il modello della FA Cup democratica e in cui tutti giocano contro tutti non esisteva nemmeno prima (le squadre di C in pratica si sfidavano solo fra di loro per poi lasciar spazio alle grandi) e, quando succedeva il miracolo, la gente nemmeno le guardava aspettando le sfide tra big.

Il paradosso è che la nuova Coppa Italia dei ricchi è stata varata da molti presidenti che si sono stracciati le vesti davanti all'ipotesi della Superlega che, in fondo, altro non è che lo stesso concetto spinto all'estremo e in campo europeo. Forti con i deboli (quelli di C) e deboli con i forti, salvo piangere e invocare la necessità che il pallone resti sempre e comunque del popolo. Lo ha detto anche il presidente della Lega Pro, Ghirelli, quando ha scoperto di essere stato tagliato fuori: "La decisione della Serie A di escludere le squadre di Lega Pro dalla Coppa Italia non solo viola diritti consolidati, ma è espressione di una concezione elitaria del calcio". Andrà per tribunali o, molto più probabile, si cercherà un compromesso che garantisca fondi alle sue società. Le quali, va detto pere correttezza, nella maggior parte dei casi nemmeno potevano ospitare le avversarie di Serie A non avendo impianti adatti o a norma per farci giocare il Milan o la Juventus.

Ora che il dado è strato tratto, la Lega andrà a vendere i diritti tv della Coppa Italia per il triennio 2021-2024. L'obiettivo è fare meglio dei 35 milioni di euro a stagione garantiti dal 2018 dalla Rai. La manifestazione in chiaro fa gola non solo alla tv di Stato, Mediaset ci provò anche tre anni fa, e adesso potrebbe avere appeal ancora maggiore. Senza le cenerentole e in nome di un calcio business che piace a tutti a patto di essere dalla parte del più forte.

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Giovanni Capuano