Appesi al cappio dei magistrati
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Appesi al cappio dei magistrati

La sentenza con cui la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Berlusconi è un affronto alla democrazia liberale e al corretto bilanciamento dei poteri

 

L’Italia, la nostra storia, il nostro voto, la democrazia, il governo, quindi il nostro benessere o il nostro declino, il futuro dei nostri figli, la direzione della nostra vita e della nazione, ecco, tutto questo dipende da un pugno di magistrati. Siamo tutti ostaggi del ventennale braccio di ferro tra una parte dell’ordine giudiziario e una parte dello schieramento politico. L’Italia, in un certo senso, non è ancora uscita dal Medioevo, dalla lotta per fazioni in barba all’interesse collettivo. Dalle contrapposizioni personali e politiche. Dall’ipocrisia di regole e leggi brandite come grimaldelli per abbattere il nemico.

Troverete oggi, sui quotidiani, dotte disquisizioni e interviste sugli aspetti legali del conflitto che oppone “Berlusconi ai giudici”. La sentenza di ieri della Corte Costituzionale stabilisce che a decidere riguardo al legittimo impedimento (l’assenza giustificata di un imputato in aula) siano i giudici e non altri. La Consulta risolve così a favore delle toghe il conflitto di attribuzione sollevato dalla difesa dell’ex premier (assente in aula nel processo Mediaset in quanto presiedeva un Consiglio dei ministri “fuori programma”). Il “no” a Berlusconi comporta che la Cassazione a sua volta possa pronunciarsi definitivamente (in 8-10 mesi, prima della prescrizione nel luglio 2014) sulla pena a 4 anni di reclusione e 5 di interdizione dai pubblici uffici inferta in appello a Berlusconi. Se la Corte confermerà la condanna, starà infine al Senato votare la decadenza di Berlusconi dal Parlamento (per qualcuno sarebbe addirittura automatica). Sarebbe la fine di un’epoca. E di un uomo, un leader, votato da oltre 9 milioni di italiani.

In un paese normale, anzi in un paese ideale che probabilmente non esiste (tanto meno lo è l’Italia), la Consulta è un consesso al di sopra delle parti che decide secondo Giustizia, e i magistrati sono persone intellettualmente oneste, competenti e senza colore politico, che si limitano ad applicare la legge con imparzialità e correttezza. Ma è proprio così? La composizione stessa della Consulta è in parte politica (dipende dal colore del Parlamento, sia direttamente sia attraverso l’elezione del capo dello Stato). Ed è sotto gli occhi di tutti, è un dato storico oggettivo, che alcuni magistrati in grado di cambiare con le loro indagini e/o sentenze la storia repubblicana, e di neutralizzare la libera espressione di voto di milioni e milioni di italiani, sono animati, diciamo così, da una forte passione politica. In altri paesi, le alte cariche politico-istituzionali sono messe al riparo da possibili azioni giudiziarie mirate a destabilizzare la democrazia (è il caso, in particolare, della Francia). Da noi, no. Nessuna rete.

La sentenza di ieri da questo punto di vista è emblematica. Ha senso che sia un giudice a stabilire se il presidente del Consiglio abbia avuto ragione a convocare, anche all’improvviso, una riunione del governo? Ha senso che un premier sotto processo, che si ritiene vittima di una persecuzione giudiziaria, sfugga a un’udienza convocando l’esecutivo? Certo è che nel braccio di ferro tra politica e magistratura, ha vinto la seconda. Anche se la magistratura non ha investitura popolare e quindi non è soggetta ad alcun controllo (neppure da parte degli elettori). Controllare, vigilare sul corretto operato dei magistrati, non significa censurarne l’azione, ma garantire ai cittadini l’esercizio imparziale della giustizia. Il bilanciamento tra poteri è il succo delle democrazie liberali. Da noi la bilancia è squilibrata.

I magistrati non sono tutti infallibili. In tutti i regimi, proprio i magistrati si sono liberamente prestati a essere il braccio armato del potere (governativo o rivoluzionario). Tutto sta a capire se oggi viviamo in un regime o in una democrazia. Personalmente, troppi indizi mi fanno propendere per la prima ipotesi.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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