Giovanni Allevi: affondo le dita nella marmellata perché non ho paura
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Giovanni Allevi: affondo le dita nella marmellata perché non ho paura

Il pianista scrive a Panorama alla vigilia del nuovo cd che farà discutere. E dividerà

di Giovanni Allevi

È una storia di una compulsione maniacale, un comportamento che io stesso faccio fatica a capire. Vado al supermercato e per la prima volta attira la mia attenzione un barattolo di marmellata di arance. Lo ignoro e faccio ritorno a casa, ma nella mente rimane il pensiero di quell’oggetto. Così, preso da uno strano impulso, torno a comprarlo. Una volta a casa sento il desiderio di possedere altri barattoli di marmellata di arance. Tornato allo scaffale, li prendo tutti. Poi, in cucina, li dispongo sul tavolo per osservarli.

L’indomani torno al supermercato; ovviamente non ce ne sono più e allora cerco un altro negozio. Resto lì ad ammirare i barattoli di marche diverse: un mondo apparentemente inesauribile e tutto per me, un appuntamento pomeridiano a cui non posso mancare. Qualche ingranaggio nella mia mente si sta rompendo. A casa, dopo averli disposti sul tavolo, li apro tutti; capisco che sto diventando matto. Mentre affondo l’indice della destra nel primo barattolo, mi raggiunge una miriade di sensazioni assieme a un leggero senso di colpa e a una visione: la ruota di uno skateboard.

Quando avevo 10 anni, venne a vivere vicino a casa mia un bambino australiano: Luigi. Diventammo amici. Dall’Australia aveva portato uno skateboard. Era di plastica rossa e aveva le ruote gialle trasparenti, un po’ gommose. Ecco, la marmellata di arance mi riporta a quel colore, a quel marciapiede dove, sullo skateboard di Luigi, mi sentivo libero come il vento, il re del quartiere, l’unico bambino tanto avventato da scendere per via Sassari a una velocità pazzesca. Quella via alla periferia di Ascoli, dove c’era un pianoforte chiuso a chiave che mi aspettava, dove la vita mi sarebbe venuta incontro come il vento che mi scompigliava i capelli in discesa. Porto il dito alla bocca e ne assaporo l’amaro dolciastro, sto facendo ciò che non si dovrebbe: affondare le dita nella marmellata. In fondo, la mia vita ora è questo: rompere una regola, sovvertire un ordine accademico, con il sorriso, perché è nella natura stessa di un sistema la necessità di essere cambiato. Mentre ripeto l’operazione con gli altri barattoli, sento che è ora di riappropriarmi di me.

Perché ho paura. Il mio concerto per violino e orchestra sta per uscire nel mondo. Ma sveglierà tanti fantasmi, essendo troppo irriverente avere l’ardire di scrivere una musica nuova nell’ambiente paludato della musica "colta". Che assurdità che qualche solone lo abbia addirittura già stroncato prima ancora di averne ascoltato una nota! So che dovrò di nuovo combattere, contro la cieca ideologia di una casta che vuole che tutto sia immobile. E allora mi preparo tornando alle mie sensazioni originarie.

È un piacere fisico rompere con le dita la superficie di quel nettare ambrato. Ne ho bisogno, per non essere travolto dalle pressioni insostenibili del mondo esterno. Un nuovo edonismo dannunziano? Certo che no. Qui a Milano c’è lo smog e io sono in un bilocale disordinato. Forse è un nuovo estetismo, dove, sotto la scorza dura delle convenzioni che ci imprigionano, cerco la vita che scorre come un magma sotterraneo, l’irriverenza e la riconquista di sé, come via di salvezza. Ecco giustificato il senso di colpa, perché abbandonare lo status quo è come tradire, per avventurarsi nei meandri misteriosi dell’attimo presente e del futuro imminente.

Grazie a questa follia della marmellata non mi concedo banalmente una pausa. In realtà ritrovo quel bambino sognatore che correva incontro alla vita, con il vento tra i capelli, che si sentiva il re del quartiere, sotto un cielo sempre blu. Quel bambino ribelle è sempre qui con me.

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