Sofia Coppola, la riservatezza della celebrity
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Sofia Coppola, la riservatezza della celebrity

Su Flair, in edicola dal 24 ottobre con Panorama, un’intervista speciale tra moda, cinema e star system alla regista che da Lost in Translation a Bling Ring racconta l’America oggi

È l’arte del distacco. O come ha scritto Interview, “della (inquietante) passività emotiva”. Quella con cui puoi permetterti di osservare il mondo quando sei l’erede di una famiglia reale hollywoodiana. Permetterti di dire, soprattutto di pensare, come Sofia Coppola: «Quando faccio un film non è per gli spettatori, ma per me. Cerco di fare quello che io vorrei vedere: al pubblico non penso».

Distacco, appunto. Che non è spocchia, anche se, certo, una qualche percentuale d’aria di superiorità – self-confidence, diciamo – va calcolata. E non è timidezza, perché la 42enne regista e produttrice (anche di vino), Oscar per la sceneggiatura di Lost in Translation, Leone d’Oro a Venezia per Somewhere, un’etichetta di “raccomandatissima” che si porta dietro, ormai ingiustamente, da quando a 21 anni fu scelta dal padre per la parte di Mary Corleone ne Il Padrino ‒ Parte III, è una che sa il fatto suo e non le manda a dire.

Come quando, seduta con Flair e Louis Vuitton nella vip room dell’ultima sfilata dell’amicissimo Marc Jacobs (appena dimesso da direttore creativo del marchio), sulla pubblicità della maison che la ritrae, fotografata da Annie Leibovitz, col padre Francis nella campagna intorno a Buenos Aires, esclama: «È chiaro che l’ho fatto per i soldi! Voglio dire, certo, di Louis Vuitton mi fido, e non l’avrei mai fatto per un brand in cui non credo, ma era l’unico modo per finanziare Somewhere».

Sarebbe miope, poi, non riconoscerle che dal Giardino delle Vergini Suicide a Marie Antoinette, fino all’ultimo Bling Ring, Coppola è forse la regista che più di ogni altra in questi anni ha cercato, riuscendovi, di raccontare il disagio dell’adolescenza, specie quella femminile, e quel distacco che caratterizza i suoi lavori non è un vezzo, ma strumento narrativo.

Privilegiata sì, quindi, ma anche tosta: una che ha saputo trovare la sua strada. Per Vuitton, Coppola ha appena presentato, in un happening sulla Rive Gauche la nuova, coloratissima, limited edition della SC Bag, la borsa nata nel 2009 dalla collaborazione con la casa di moda. Cerbiatti, cuori al neon, maxi-ciliegie, peonie con petali giganti, mancano solo i palloncini (anzi no, ci sono pure quelli - a centinaia, gialli, arancio e fucsia): per un mese le vetrine dello store Le Bon Marché ospitano le fantasie dell’infanzia a lei più care.

«Ero entrata da Vuitton per ordinare una borsa su misura solo per me», racconta. «Né troppo piccola, né troppo grande, morbida ma con stile. Sono uscita che volevo creare borse per tutti». Per fortuna non capita a chiunque. «Nella moda ho iniziato presto. Da bambina disegnavo bozzetti. A 15 anni un’amica di famiglia (l’attrice Carole Bouquet, ndr) mi ha presentata da Chanel. Ho fatto uno stage a Parigi. Sapesse quante cose s’imparano portando il tè a Karl Lagerfeld».

Poi l’incontro con Marc Jacobs, di cui è amica, musa e fan dalla celebre collezione grunge per Perry Ellis (1993): il poster che la vede in piscina, abbracciata a una bottiglia di profumo, con indosso solo le mutandine del costume; la collezione di scarpe disegnata insieme per Vuitton. Ed è di pochi giorni fa l’annuncio che dirigerà lo spot per il suo profumo Daisy. In una foto, lei e Jacobs sono su un letto: Sofia a pancia in sotto, la microgonna sollevata, Marc che ride, mentre con la mano aperta pare lì lì per sculacciarla. Sarà il suo lato eccessivo, o meglio, “bling”?

Nel suo ultimo film, Bling Ring, lei usa la moda per fotografare la sbornia di materialismo di una generazione ossessionata dalle celebrity e dai social network. Giovani annoiati, belli e vuoti, che passano il tempo a far irruzione nelle case di Paris Hilton, Lindsay Lohan e Orlando Bloom: frugando fra le loro mutande, rubando vestiti, scarpe e borsette griffate in quanto loro proprietà, e quindi status symbol. È evidente, dal particolare distacco con cui tratta i personaggi, che è una realtà che le fa orrore. È così. Gli abiti raccontano un personaggio, come l’ossessione per le scarpe di Manolo Blahnik in Marie Antoinette, ma alla fine anche in Bling Ring la moda è solo un mezzo.

«Avevo letto il servizio di Vanity Fair su un gruppo di minorenni che per mesi si era introdotto in casa delle star per derubarle. Ho pensato: questa storia è così pop, qualcuno deve farci un film. A colpirmi era stato l’atteggiamento di quegli adolescenti. Quell’ansia di farsi scoprire, di raccontare al mondo della propria impresa: sembravano invasati. Ogni furto era per loro come una dose di coca. Una realtà che non conoscevo, che mi ha affascinata e spaventata insieme. Le mie figlie diventeranno così? Quando poi ho letto che una di quelle ragazze pensava che il giornale fosse andato a intervistarla non per i furti commessi, ma per chiederle le sue opinioni sullo stile, quasi fosse una celeb, mi sono detta: “Qualcosa, in America, dev’essere andato  terribilmente storto”. Un paio delle attrici di Bling Ring non avevano mai recitato prima: sono vere party girl losangeline. È fiction, ma impregnata di realtà…»

La conversazione con la regista Sofia Coppola, continua sul numero 7 di Flair , in edicola con Panorama, da giovedì 24 ottobre.

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Costanza Rizzacasa d'Orsogna