Kendrick Lamar
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Musica

Kendrick Lamar, il poeta-rapper del ghetto diventato Premio Pulitzer

L'appassionante storia dell'artista di Compton, che oggi si esibirà all'Ippodromo SNAI di Milano, è raccontata anche in Italia nel libro The Butterfly Effect di Marcus J.Moore

Kendrick Lamar, che stasera si esibirà all'Ippodromo SNAI di San Siro (Milano) nell'unica data italiana del suo tour mondiale, è un rapper atipico per Compton: non si è mai unito alle gang del posto e la sua vita è cambiata a soli cinque anni quando è stato testimone di un omicidio. Il piccolo Kendrick decise di studiare invece che fare la vita di strada e fu lì che a otto anni assistette alle riprese del video di California Love di Tupac e Dr. Dre, decidendo di puntare tutto sulla musica. Una scelta decisamente vincente: con soli 5 album, tra cui il recente Mr.Morale & The Big Steppers, il rapper californiano si è guadagnato un posto d'onore nel gotha dei più grandi di sempre nella storia dell'hip hop, con tredici Grammy Awards in bacheca e la nomina del Time come una delle 100 persone più influenti del mondo. Nell’ultimo acclamato Half Time Show del Superbowl dello scorso febbraio, Kendrick ha incantato il pubblico con il suo caratteristico modo di rappare, magistrale nei suoi cambiamenti di tono e di ritmo, tanto da sembrare a volte un altro interprete: è come se lo spirito bebop di Charlie Parker, di Dizzy Gillespie e di Thelonious Monk si fosse reincarnato nell’artista di Compton.

Nel 2018 Lamar è stato il primo musicista non classico e non jazz, in 102 anni, a ricevere il prestigioso Premio Pulitzer per la musica perché “DAMN. è una virtuosistica collezione di canzoni unificate dall'autenticità vernacolare e dal dinamismo ritmico, che offre una serie di emozionanti vignette che catturano la complessità della moderna vita africano-americana”. Il rapper di Compton è entrato così nella storia della musica mondiale, accanto ad artisti del calibro di Aaron Copland, Charles Ives, John Adams, Bob Dylan, Duke Ellington, George Gershwin, Thelonious Monk, John Coltrane e Hank Williams. Ma come ha fatto un ragazzino povero di Compton a diventare in pochi anni un fenomeno mondiale?

Due anni dopo la prima pubblicazione negli USA, finalmente è disponibile anche da noi The Butterfly Effect, la prima biografia in italiano su Kendrick Lamar firmata dal giornalista Marcus J. Moore e pubblicata da Il Castello (marchio Chinaski Edizioni). Una minuziosa biografia dei suoi primi trent’anni di vita: dagli esordi con lo pseudonimo di K-Dot, fino all’incontro con Dr. Dre, dai rapporti con la famiglia alla vita di strada sempre costellata dalle questioni razziali che poi influenzeranno il suo songwriting. The Butterfly Effect è una dettagliata analisi della sua discografia, dai primi EP e mixtape, ai quattro album di studio, dove attraverso i suoi versi duri, i suoi inni politicamente carichi di significato e le sue esibizioni radicali, Lamar è diventato un faro di luce per molte persone in America. Un conscious rapper moderno, attraversato dalla fede religiosa, antistar e curioso di attingere dalle radici della black music più classica, fino alle sperimentazioni jazz rap.

Per gentile concessione della casa editrice Il Castello, pubblichiamo un breve estratto del terzo capitolo del libro The Butterfly Effect nel quale si racconta la nascita della carriera artistica di Lamar come supporter del rapper Jay Rock e delle qualità che lo hanno reso grande.

«Mentre erano a Reno, in Nevada, durante una tappa del tour, MJ(cugino e rapper di supporto di Jay Rock) si allontanò dal tour bus
dopo un concerto per chiamare la sua signora. Un gruppo di ragazzi che nemmeno avevano assistito al concerto, vedendo che MJ indossava una maglietta rossa – lo stesso colore che portavano i Bloods – decisero di aggredirlo. Partirono dei colpi e MJ venne ferito. Giorni dopo, Tech e MJ erano al telefono a festeggiare il fatto che quella notte lui non fosse morto: MJ doveva uscire dall’ospedale presto per riunirsi al tour, e a quel punto avrebbero potuto festeggiare anche dal vivo. Ma MJ non lasciò mai quell’edificio: morì per colpa di un embolo. "Fu un giorno orrendo, veramente orrendo”, ricorda Tech N9ne. Non solo Jay Rock aveva perso suo cugino, ma anche il rapper di supporto per il tour. Ma Jay aveva una soluzione. “Disse ‘Conosco qualcuno che può aiutarmi. È abituato a dividere il palco con me’”, ricorda Tech. “Quel giorno ho conosciuto Kendrick”. Divenne lui il rapper di supporto di Jay Rock: fomentava la folla durante il set di Jay e di tanto in tanto proponeva musica sua.

Quel tour insegnò a Jay e a Kendrick come esibirsi sul palco, e trasformare il materiale registrato in studio in uno show dal vivo entusiasmante. Non bastava limitarsi a salire sul palco e urlare le rime al pubblico: i ragazzi della TDE dovevano essere diversi. Kendrick studiò Tech N9ne per rendere più coinvolgente il suo set, che all’epoca consisteva solo in qualche canzone dai suoi primi mixtape. “Mi ha detto che mi guardava con attenzione ogni sera, per capire che significa essere un intrattenitore”, dichiara Tech. Abbott aggiunge: “L’interesse di Kendrick era genuino, voleva scoprire tutto quello che poteva sul business.” Voleva sapere tutto di tutti, i ruoli, i compiti, il modo in cui contribuivano a portare in scena l’esperienza del concerto: “Era come una spugna. Tutti bevevano e si divertivano sul bus, mentre lui restava al lato del palco a fare un sacco di domande.” Non sorprende che Kendrick sia diventato Kendrick. La grandezza si raggiunge attraverso momenti come questo, dietro il sipario, quando nessuno ti guarda. Non è sufficiente desiderare di essere straordinari; è una passione che ti deve consumare, deve penetrarti nelle ossa. È la vecchia regola delle 10.000 ore teorizzata dall’autore Malcolm Gladwell, secondo cui diventi un maestro nella tua arte solo a furia di provare e riprovare: la vera esperienza si raggiunge solo una volta che raggiungi le 10.000 ore di pratica.

La leggenda del basket Kobe Bryant era famoso per la sua filosofia negli allenamenti: se l’obiettivo era fare 500 tiri a canestro in un giorno, lui cercava di farne mille. E mentre gli altri si rilassavano lui restava in campo, da solo con la palla, a provare il fadeaway e il tiro sottomano. Per lui il basket era tutto ed essere bravo non era abbastanza. Kendrick aveva lo stesso approccio nell’imparare ogni cosa sulla musica: voleva raggiungere la grandezza dedicandosi in maniera instancabile alla carriera. Sapeva di avere qualcosa che poteva cambiare il mondo, ma il talento senza il duro lavoro da solo non bastava a portarlo in vetta. Kendrick isolandosi in quel modo stava piantando i semi della sua carriera. “Sembrava Kobe Bryant che si allena in palestra”, dichiara Abbott. Prima dell’Independent Grint Tour, Lamar non sapeva nemmeno come vestirsi per salire sul palco: usciva con addosso felpe col cappuccio, short di jeans logori e sandali Crocs. “Da vero hippie”, ricorda Tech N9ne. Ma quei giorni on the road gli insegnarono molto in fatto di disciplina: imparò a gestire il suo talento con intensità e costanza. I ragazzi della Strange Music erano fiscalissimi: se sforavi di un minuto col tuo set ti decurtavano la paga. La crew di Tech lavorava in modo molto preciso e dieci anni dopo il Grind Tour la TDE funzionava in maniera simile – silenziosi e puntuali, quasi come automi, alla ricerca della perfezione anche nei dettagli
più minuti. Mentre altri rapper facevano uscire musica nuova a ritmi forsennati, gli artisti TDE privilegiavano la qualità alla quantità, evitando la fretta comune a molti dei loro colleghi nelle pubblicazioni. Internet era insaziabile: qualsiasi cosa uscita più di due mesi prima era considerata storia vecchia. Quindi nel ritmo di lavoro della TDE c’era qualcosa di nobile e idealistico, in un settore sempre affamato di materiale nuovo. Il silenzio spesso è assordante, e visto che il collettivo non diceva molto (anzi, in realtà niente) tra un’uscita e l’altra, la TDE si costruì intorno un’aura di mistero che divenne un po’ il suo marchio di fabbrica. Le loro uscite erano eventi: ogni nuovo album era accompagnato da un’ondata di isteria che si traduceva in vendite esorbitanti e scintillanti trofei dorati».

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Gabriele Antonucci