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Musica

Get Back: la magia dei Beatles raccontata come mai prima

Il più importante documentario musicale di sempre diretto da Peter Jackson: un viaggio negli ultimi giorni dei Fab Four

Uno dei maggiori sogni, per un appassionato di musica, è quello di poter assistere da vicino a quel misterioso e affascinante processo alchemico nel quale alcune parole scritte su un foglio di carta e un paio di accordi abbozzati alla chitarra si trasformano, piano piano, in una canzone completa. Una canzone che, magari, verrà ascoltata da milioni di persone e che entrerà a far parte di quel romanzo personale e policromo, ricco di colpi di scena, chiamato vita.

Una magia che emerge compiutamente dalle vivide immagini di Get Back, l'imperdibile docufilm di Peter Jackson (Il Signore degli Anelli, Lo Hobbit) sui Beatles, disponibile da alcuni giorni in streaming su Disney +. Una sorta di salvifica macchina del tempo che trasporta lo spettatore di fine 2021, stremato da due anni di pandemia, nella scoppiettante Londra di inizio 1969. John Lennon e Ringo Starr hanno entrambi 28 anni, Paul McCartney 26 e George Harrison 25, ma hanno già raggiunto così tanti obiettivi, in termini di fama e di ricchezza, che potrebbero benissimo vivere di rendita sui clamorosi successi degli ultimi sette anni. Eppure il demone della creatività, sebbene in un momento di leggera stanchezza, è ancora presente in tutti e quattro, soprattutto in McCartney, consci probabilmente che la straordinaria epopea dei Beatles stia ormai giungendo al termine e che, prima dei titoli di coda, c'è ancora bisogno di un finale all'altezza della loro fama.

Il regista Peter Jackson, con uno sforzo titanico durato oltre quattro anni, ha avuto accesso a 60 ore di filmati inediti e a 150 ore di audio delle sessioni diGet Back, il titolo provvisorio di un album, di un documentario e di uno spettacolo dal vivo di inizio 1969 che, dopo le sperimentazioni di Revolver, Sgt.Pepper's e del "White Album", avrebbe visto i Beatles tornare a suonare dal vivo, senza sovraincisioni, quella miscela inconfondibile di rock, pop e blues che ha fatto la loro fortuna agli inizi di carriera. Il regista ha evitato accuratamente di utilizzare quanto già visto negli ottanta minuti del docufilm Let It Be del 1970, diretto da Michael Lindsay-Hogg. Da quella enorme mole di materiale, Jackson ha ricavato quasi otto ore di documentario diviso in tre parti, forse troppe per un "novizio" che si accosta per la prima volta alla mitologia dei Fab Four, ma in realtà perfette per i fan più accaniti che, come in un lungo e avvincente reality show, si trovano proiettati direttamente all'interno di un racconto di cui, troppo spesso, ciascuno ha restituito solo la parte a lui più congeniale.

McCartney si era sempre opposto all’utilizzo di quelle immagini perché riteneva che ne venisse fuori un ritratto troppo cupo della band, mentre in realtà, come in ogni rapporto personale, vediamo alternarsi momenti di tensione, anche aspra, ad altri più gioiosi e distesi, nei quali si comprende perché, a oltre 50 anni dal loro scioglimento, stiamo ancora qui a celebrare la straordinaria eredità artistica dei Beatles. La stupefacente qualità delle immagini e del sonoro di Get Back, frutto di un lunghissimo lavoro tecnico che ha utilizzato perfino l'intelligenza artificiale, riesce a rendere ancora più vivide e attuali le alterne vicende dei quattro artisti, tra litigi, riappacificazioni, chiacchierate, cazzeggi e tanta musica improvvisata, in quei ventidue giorni del gennaio del 1969.

Tre settimane in cui sono nati capolavori assoluti come Get Back, Something, Let It Be e The Long And Winding Road e grandi brani come I Me Mine, Don’t Let Me Down, Maxwell’s Silver Hammer e Octopus’s Garden, nati davanti ai nostri occhi come frutti inaspettati di un'improvvisa ispirazione o, più spesso, come risultato di un lungo e faticoso processo creativo. Il primo episodio si svolge quasi interamente negli studi cinematografici di Twickenham, dove la Apple Films aveva scelto di girare il film The Magic Christian, con protagonisti Peter Sellers e Ringo Starr. Un unico grande spazio, nel quale avrebbero dovuto prendere vita l'album, il documentario e lo show televisivo originariamente previsti nel progetto Get Back. L'atmosfera asettica e dispersiva dello studio, con il suo viavai di persone che entrano ed escono di continuo, non fa che esacerbare le tensioni latenti al gruppo, che già avverte da mesi l'imminente fine di una storia irripetibile. Paul, dopo la morte di Brian Epstein, si è autoproclamato leader del gruppo ed è quello che si impegna maggiormente nell'intero progetto, dettando gli arrangiamenti delle canzoni e proponendo a getto continuo nuove idee su come dovrebbe svolgersi lo show televisivo. John, che in quel periodo faceva largo uso di eroina, sembra quasi assente, più concentrato sull'onnipresente e silenziosa Yoko Ono che sulle nuove canzoni. George, ormai pronto per la carriera solista, soffre le troppe ingerenze di Paul nel suo modo di suonare la chitarra e la sottovalutazione dei suoi brani, che lui reputa (giustamente) ormai all'altezza di quelli della premiata ditta Lennon-McCartney. Ringo è quasi impassibile, parla più con gli occhi che con la bocca, si tiene saggiamente lontano dalle discussioni, ma si fa sempre trovare pronto alla batteria, conferendo a ogni brano il giusto timing: chi, negli anni, ha sottovalutato il suo ruolo nei Beatles, dopo la visione di Get Back probabilmente cambierà idea. Harrison, a un certo punto, stufo dei continui suggerimenti di Paul, si alza e se ne va via in modo british, senza mai alzare la voce, lasciando così i Beatles in tre.

Dopo due serrate trattative e grazie alla mediazione fondamentale di Ringo Starr, Harrison ritorna nel gruppo, anche se ormai è già proiettato alla sua carriera solista, che da lì a poco avrebbe prodotto il capolavoro All Things Must Pass. Ricomposta la frattura, nella seconda parte di Get Back i Fab Four decidono di “tornare a casa”, facendo allestire le attrezzature tecniche negli Apple Studios, al numero 3 di Savile Row. L'atmosfera si fa più distesa e i quattro musicisti appaiono più focalizzati, soprattutto John, che sembra un altro rispetto a quello distratto visto negli studi di Twickenham. Oltre ad assistere in presa diretta all'emozionante nascita dei nuovi brani, il divertimento per gli spettatori è assicurato anche da una grande quantità di cover degli idoli dei Beatles, da Elvis Presley a Little Richard, da Ray Charles agli Everly Brothers fino a Bob Dylan, di cui eseguono una magnifica versione di I shall be released.Si è rivelata vincente l'idea di ingaggiare come quinto Beatles il polistrumentista Billy Preston che, grazie alla sua naturale empatia e alle sue eccezionali doti tecniche, riesce ad alzare ulteriormente l'asticella delle incisioni. La terza puntata ci porta, in un crescendo rossiniano, fino al leggendario Rooftop Concert di Savile Row, per la prima volta mostrato per intero. I Beatles non suonavano dal vivo da tre anni, eppure non hanno mai suonato bene come allora, come se già sapessero che quel concerto, improvvisato e poi bruscamente interrotto dai poliziotti londinesi per preservare la quiete pubblica, fosse il canto del cigno di un gruppo di amici che, partendo dai bassifondi della Liverpool proletaria, in meno di dieci anni hanno cambiato per sempre il volto della musica pop e rock.
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Gabriele Antonucci