Jack Savoretti: “Vivo a Londra, ma ho Genova nel cuore”
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Jack Savoretti: “Vivo a Londra, ma ho Genova nel cuore”

Il cantautore italoinglese si esibirà stasera all’Auditorium Parco della Musica di Roma, già sold out, dove presenterà i brani dell’ep Tie me down

Una delle migliori canzoni del talentuoso cantautore italoinglese Jack Savoretti si chiama Changes, cioè cambiamenti,  una ballad emozionante e ariosa scelta come colonna sonora della commedia Universitari di Federico Moccia.

Un titolo che si adatta bene ai numerosi  cambiamenti che stanno avvenendo nella vita del giovane artista, basti pensare alla sua partecipazione  all’ultimo video di Paul McCartney, Queenie Eye,  accanto a star del calibro di Meryl Streep, Johnny Depp, Sean Penn, Jeremy Irons, Gary Barlow e tanti altri.  Un certo Bruce Springsteen, uno che di musica ne  capisce parecchio, lo ha voluto a luglio 2013 in apertura del suo concerto all’Hard Rock Calling Festival di Londra.

Sono in molti a vedere in Savoretti la “next big thing” del cantautorato rock, con echi folk e country, tanto che è scattato l’inevitabile gioco dei paragoni sia con i mostri sacri del genere, in primis Bob Dylan, Jackson Browne e Van Morrison, che con artisti più recenti come Damien Rice e John Mayer.

Jack non vuole, però, imitare nessuno e ha fatto tesoro delle numerose influenze musicali con le quali è entrato in contatto fin da piccolo, grazie a un padre genovese e a una madre di origini tedesco-polacche.

Savoretti si è affermato con l’eccellente disco Before the storm e ha da poco pubblicato l’ep Tie me down, che anticipa di alcuni mesi il nuovo album Written in the scars, previsto per febbraio 2015.

Stasera il cantautore si esibirà in una location prestigiosa come l’Auditorium Parco della Musica di Roma, in un concerto che è già sold out.


Jack, il tuo album precedente si intitola Before the storm(Prima della tempesta). La tempesta ora è passata?


“La tempesta è passata, almeno spero, e sono sopravvissuto. Non a caso l’album che uscirà nel 2015 si chiamerà Written in the scars, che vuol dire scritto nelle cicatrici. Ho composto queste canzoni dopo essere uscito da questa tempesta alla mia maniera, spero da vincitore, perché sono ancora qua a fare questo lavoro e ora guardo al futuro con ottimismo”.


Come ti ha accolto il pubblico italiano?


“E’ una cosa singolare, qui sono invitato da straniero e poi accolto da italiano. E’ molto bello perché da straniero il pubblico ti dà più attenzione, sei un ospite, ma appena sanno che sei anche italiano, aumenta il calore nei tuoi confronti. E’ una situazione strana, che mi fa capire quanto sia difficile a volte  per gli artisti italiani, che non hanno questo asso nella manica”.


La tua collaborazione con Elisa, con la quale hai duettato all’Arena di Verona, riguarderà solo i live o anche alcune canzoni future?


“E’ una collaborazione molto aperta, è nata anche un’amicizia tra noi, ho grandissima stima  e rispetto per lei, basta vedere un suo show per capire cosa vuol dire essere un grande artista. Io la metto tra i grandi nomi della musica italiana, del passato e del futuro. E’ stato un onore cantare con lei all’Arena di Verona, uno dei posti più belli al mondo dove suonare. Sono grato di aver avuto questa possibilità, forse suonerò con lei anche a Roma e a Londra, ci sono delle possibilità, vedremo. Sto lavorando anche con Zibba, di cui sono un grande fan e ora anche amico. Ha un modo di lavorare molto simile al mio, è un artista vero, che si è costruito in tanti anni di gavetta”


Che cosa ha rappresentato suonare allo Stadio Marassi di Genova prima di Genoa-Juventus, per un tifoso rossoblù come te?


“Da quando ho ricordi, sono sempre stato un tifoso genoano sfegatato, ho il cuore rossoblù grazie a mio padre e a mio nonno. Quella serata ho realizzato un sogno, da ragazzino volevo giocare per il Genoa e invece ho suonato per il Genoa, abbiamo fatto alcuni pezzi del nuovo album , oltre all’inno You’ll never walk alone, dedicato sia a mio padre, che deve affrontare a breve un’operazione, che ai tifosi del Genoa. Dopo avere suonato al Marassi, per me era già stata una serata indimenticabile, poi,  il goal al 94’ di Antonini, l’ex di Allegri, l’ha resa unica. Se avessi scritto questa storia per un film, la gente non mi avrebbe creduto”


Ti senti più italiano, più inglese o più cittadino del mondo?


“Prima di tutto sono londinese e genovese, più che inglese e italiano. Sono molto attaccato a queste due città: quando sono a Genova capisco tante cose del mio carattere; quando esco da Londra,in Inghilterra non mi sento esattamente inglese. Tra l’altro quando sono in Italia vengo considerato inglese e quando sono a Londra vengo considerato italiano, ho sempre l’ombra dell’emigrante, a volte è bello, a volte no, perché senti di non appartenere a nessun posto”


Cosa ne pensi di quello è successo a Genova in occasione del recente nubifragio?


“La musica e l’arte di Genova ti fanno capire di che pasta sono fatti i genovesi: sono persone forti, con i controcoglioni. E’ vergognoso che, nel 2014,  accada la stessa cosa due volte in tre anni. Se io faccio male il mio lavoro mi licenziano e non suono più, invece i politici e i dirigenti che hanno commesso questi errori sono sempre al loro posto. Per fortuna i genovesi si tirano sempre fuori da tutto, la loro reazione è stata incredibile, tutto il mondo ha ammirato il coraggio e l’unità nell’emergenza dei cittadini, che si sono tirati su le maniche e che non si sono fermati davanti a niente. Sono molto fiero delle mie radici genovesi”


Quanto c’è della scuola genovese nella tua musica?


“Liricamente non mi permetterei mai di scrivere in italiano perché non ho il linguaggio adatto, non sono un maestro della lingua italiana come Tenco e De Andrè, ma ho sempre ammirato la loro raffinatezza che deriva dalla musica francese, quella particolare forma di poesia, di produzione e di scelte strumentali.  La musica francese è elegante e forte allo stesso tempo, è piena di contraddizioni, proprio come la musica genovese”


Hai registrato alcuni brani del tuo secondo disco negli studi di Jackson Browne, a cui in molti ti accostano come stile. Com’è stato lavorare con un’icona della West Coast come lui?


“Il suo studio di Santa Monica è stupendo, il giorno prima di iniziare a registrare è passato Bob Dylan, c’erano ancora il suo cappello e la sua giacca appesi. Il fonico di Browne mi ha fatto sentire dei bootleg di Dylan che non sono mai stati pubblicati, presi da suoi concerti in Inghilterra e in Usa. Mi ha colpito in particolare Nobody ‘cept you, che suono dal vivo e che adesso ho registrato per la versione inglese del nuovo album. Non so se sarà presente nella versione italiana, dove sicuramente troverete alcune sorprese dedicate a voi”.


Dai brani del tuo ep Tie me down si avverte una nuova direzione musicale, sei d’accordo?


“Sì, anche perché è la prima volta che scrivo un album senza imitare nessuno, ogni canzone è stata registrata il giorno stesso in cui è stata scritta, quasi in presa diretta, con il massimo della spontaneità.  In Written in the scars si sentirà più l’influenza di De Andrè e di Serge Gainsbourg che di Jackson Browne”.


Il disco precedente After the storm ha allargato notevolmente il tuo bacino d’utenza, che cosa ti aspetti da Written in the scars ?


“Non lo vedo come l’album della definitiva consacrazione, ma semplicemente come un’altra fotografia di quello che sono in questo momento. E’ diverso dal precedente perché è molto spontaneo, è nato senza pensarci troppo, componendolo in studio insieme a tanti amici, tra cui Pedro Vito che è il mio chitarrista da dieci anni. Gli album li vedo come dei mattoni, non come delle case: non sono mai finiti del tutto”.

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Gabriele Antonucci