
Telecom Italia, il 'no' a Sawiris e il favore agli azionisti
Ecco perché l'azienda sulla cessione della rete non sta facendo l'interesse del paese
Più che un problema di prezzo sembra una questione di ordini di grandezza. Telecom Italia è a corto di risorse per gli investimenti, certo, e i soldi di Naguib Sawiris farebbero comodo. Ma che senso ha un’offerta di 3 miliardi per il sostanziale controllo dell’azienda, negli stessi giorni in cui questa ne chiede 15 alla Cassa depositi e prestiti solo per conferire la sua vecchia rete di rame a una società di cui pretende pure il controllo?
Bisogna partire da questa incongruenza per farsi un’idea della partita a scacchi in corso sulle strategie industriali dell’ex monopolista telefonico che ha detto "no" all'offerta da 3 miliardi di euro per l'ingresso nell'azionariato del magnate egiziano Naguib Sawiris e "si" alle trattative con Cdp. Come in ogni vera partita a scacchi, l’arma decisiva è anche qui la pazienza, unita alla capacità di mantenere fermi nel tempo gli obiettivi strategici.
È un’arte in cui il presidente di Telecom, Franco Bernabè, eccelle da sempre, ma che sta dimostrando di saper portare a forme di vero e proprio virtuosismo. Era il settembre del 2009 quando il presidente di Cassa depositi e prestiti Franco Bassanini ventilò per la prima volta (a un convegno della società di consulenza Between a Capri) la disponibilità della Cassa a mettere sul tavolo una fetta cospicua dei 10-15 miliardi necessari per una rete di telecomunicazioni fissa in fibra ottica, considerata fra i fattori di sviluppo più necessari al nostro paese.
L’unica condizione richiesta era che l’impresa fosse condivisa dai più importanti operatori del settore (anzitutto Vodafone, Wind e Fastweb) in modo da assicurare un ragionevole ritorno economico nel lungo periodo. L’idea fece scalpore, visto che già allora le telecomunicazioni cominciavano ad avere un gran bisogno di soldi.
Le compagnie alternative l’accolsero con entusiasmo, vedendo la prospettiva di affrancarsi dall’handicap di dover passare sempre da Telecom per accedere alla rete fissa. Neppure Telecom disse no, ma cominciò a porre condizioni che in tre anni non si sono ancora esaurite. Prima chiese di poterla realizzare da sola nelle aree a maggiore risposta di mercato, limitando ai centri minori la nascita di una rete comune, poi avanzò obiezioni tecnologiche, estraendo dal cilindro una novità chiamata vectoring che moltiplica la velocità di trasmissione sull’ultimo tratto della rete di rame a patto che il resto sia di fibra ottica.
Di queste e di altre questioni si è discusso per mesi al cosiddetto “tavolo Romani”, che il precedente ministro delle Comunicazioni aveva messo in piedi illudendosi di poter portare a casa un accordo entro la fine della legislatura. Poi sono iniziate, con la benedizione del nuovo governo, le trattative con la Cassa depositi e prestiti per lo scorporo della rete di rame di Telecom come premessa per la realizzazione progressiva della nuova rete.
Ora, dopo tante vicissitudini, si comincia ad argomentare che ai fini dell’allentamento delle regole antimonopoliste chiesto a Bruxelles (in vista di condizioni di uso della nuova rete tali da incoraggiare gli investimenti) lo scorporo della proprietà non è necessario e basta la soluzione scelta da British Telecom, chiamata «Open Reach», che corrisponde grosso modo alla separazione funzionale non solo della rete, ma anche delle divisioni ingrosso e dettaglio (a cui la stessa Telecom si oppose strenuamente nel 2009).
Infine è spuntata la proposta di Sawiris, che in un primo momento Telecom Italia ha mostrato di prendere sul serio proprio come alternativa alla necessità dello scorporo della rete e che ora viene accantonata, mentre si annuncia solennemente il proseguimento delle trattative con Cassa depositi e prestiti, che non si sa bene a che punto siano.
Quel che si capisce da tutto questo è che Telecom Italia ha probabilmente l’interesse di far vivere il più a lungo possibile la sua rete di rame, ritardando l’arrivo di quella in fibra (chiunque la costruisca) che porterebbe internet ultraveloce nelle case e negli uffici degli italiani. È un interesse del tutto legittimo che l’azienda persegue a beneficio dei suoi azionisti. Ma forse è ora di chiedersi se corrisponde o no a quello del paese.